Cultura dello stupro ed educazione. Ne parliamo con Benedetta Lo Zito
L’intervista di Elisa Belotti
Attorno al 25 novembre l’attenzione pubblica verso la violenza di genere e le molestie è maggiore, ma questi sono fenomeni talmente presenti nella nostra società da formare un vero e proprio sistema culturale. Come riconoscerlo e contrastarlo?
Ne abbiamo parlato con Benedetta Lo Zito (@vitadibi_), che con @suns_endrapeculture fornisce sostegno alle vittime di violenza sessuale ed educazione sulla cultura dello stupro.
Ciao Benedetta, innanzitutto presentati a chi ci leggerà. Come ti definisci quando ti chiedono di parlare di questi argomenti?
Fondamentalmente io mi occupo di questioni di genere attraverso la divulgazione. Ho fatto diversi corsi universitari e non per avvicinarmi alle dinamiche di genere, parità, discriminazione, violenza domestica e sessuale. Sono una survivor e ho iniziato ad approcciarmi a questo tema per esigenza personale. Ho unito la mia esperienza a degli studi più approfonditi.
In certi momenti della vita ci sono temi che risuonano più di altri, quindi ho deciso di dedicarmi a questo. E poi sono un’attivista, ho sempre fatto politica e ora mi sto specializzando in rape culture.
Tu ti sei definita survivor, ma quando si parla di violenza si usa spesso il termine vittima. Quali sono le differenze? Quando usare l’uno o l’altro?
Scegliere il termine è un po’ come la questione dei pronomi che una persona preferisce. La categoria dei/delle survivor subisce discriminazioni, dal non essere creduti alle discriminazioni sul lavoro, e come per tutte le categorie marginalizzate è sempre meglio non assumere un punto di vista a priori ma chiedere.
In questo caso chiedere come vogliono definirsi e le proprie motivazioni. Vittima di solito è un termine che si usa in ambito sanitario, giudiziario o quando si parla di un avvenimento che è appena successo e ha una connotazione passiva. Survivor è quando decidi di fare qualcosa con quello che ti è capitato.
Facciamo un po’ di chiarezza. Che cos’è la cultura dello stupro?
Quando si parla di cultura dello stupro le persone spesso sono sorprese e si chiedono come si possa pensare che uno Stato incoraggi lo stupro o non lo punisca. Ovviamente non è così. Lo Stato e l’opinione pubblica condannano lo stupro. Il problema è che prima di arrivare allo stupro ci sono una serie di cose che accadono, e la cultura dello stupro è proprio ciò che sta sotto l’azione violenta. È tutti quegli atteggiamenti e comportamenti con cui gli uomini si approcciano alle donne, parlano delle donne, il victim blaming, le chiacchiere da spogliatoio o nelle chat di Telegram, il revenge porn, etc. È la percezione dello stupro che ha la società: l’uomo è predatore, non poteva controllarsi, mentre la donna deve tutelarsi o ne è responsabile. O ancora la società condanna lo stupro però gli articoli delle principali testate attutiscono la colpa dello stupratore e concentrano l’attenzione sui comportamenti delle donne considerati come scorretti. Viene giustificato lo stupratore e questo tipo di narrativa fa sì che gli uomini continuino a sentirsi scusati per quello che fanno.
Poi c’è un altro problema. Si intende a considerare come stupro solo la sua rappresentazione stereotipata: il rapporto penetrativo, violento, di notte, nei vicoli. Ma la maggior parte degli stupri non avviene così ed è stupro tutto ciò che avviene senza consenso, qualsiasi pratica sessuale a cui non si ha dato consenso dall’inizio alla fine. Bisognerebbe imparare a fare sesso in questo modo, con il consenso. Il modo migliore per smontare questa cultura è non smettere di denunciare e di parlarne, perché si attiva un meccanismo che porta altre vittime a parlare e si fa crollare il muro della vergogna e dell’omertà che circonda lo stupro. È difficile e nessuna ha l’obbligo di farlo, però questo indebolisce l’intero sistema.
Come ci si educa per riconoscere e contrastare la cultura dello stupro? I media tradizionali non ne parlano o non in questi termini. Tu come consigli di informarsi?
I media italiani non ne parlano, ma quelli stranieri sì. Inoltre ci sono tante persone che fanno attivismo online, come Irene Facheris, Carlotta Vagnoli, Eugenia Laura Raffella, Giulia Zollino, che traducono queste cose e fanno divulgazione. Ci sono tante persone che fanno un lavoro accessibile a tutti e di alta qualità. È importante rivolgersi a chi fa informazione indipendente e mette a disposizione informazioni specialistiche e diffuse su fonti altrimenti difficili da recuperare. Ci sono canali diversi dai giornali e dalla TV e bisogna imparare ad usarli.
Va poi portata l’educazione sessuale e affettiva nelle scuole. In Italia non è obbligatoria, i genitori possono scegliere di non farla fare ai figli e alle figlie ed è affidata ad associazioni esterne. Non si parla di pratiche sessuali considerate meno usuali, come il sesso anale, o della contraccezione e soprattutto del consenso. In altri paesi si insegnano il consenso e l’autonomia corporea fin dalla scuola materna, mentre questo manca nel nostro Paese. Bisogna poi imparare a parlare di ciò che piace e non piace. Smantellare l’idea che l’uomo deve scopare e la donna non fa sesso per piacere, ma per amore o dovere. L’educazione sessuale è fondamentale perché l’intera cultura dello stupro è legata all’esercizio di un potere tramite il sesso. Chi compie una molestia o una violenza esercita un potere perché è in uno stato di privilegio.
Che peso ha secondo te la rappresentazione di vittime e survivor nelle narrazioni e nei media? Quali libri, film, serie TV che si allontanano dagli stereotipi ci consigli?
In generale andrebbe rivista l’idea che abbiamo di vittima. Innanzitutto non esiste una sola vittima e dovremmo iniziare a considerare la questione da una prospettiva più intersezionale, perché ci sono molte sfaccettature: qual è l’esperienza di una survivor che non si identifica nel genere femminile, trans, queer, nera o di un survivor? E poi va modificata la rappresentazione dello stupratore. Capita che un uomo si apposti nei vicoli bui e ti stupri in modo violento, ma non è l’unico caso e questa narrazione impedisce agli uomini di capire che potrebbero essere loro gli esecutori della violenza.
Come serie TV consiglio sicuramente I may destroy you, in cui la protagonista Arabella subisce due stupri nel giro di poco tempo: uno dato dalla droga in un drink e poi il preservativo rimosso senza consenso. Poi ci sono Grand Army e Unbelievable. Sono serie realizzate in modo non stereotipato. Tra i libri Chiedimi scusa di Ensler, narrato dal punto di vista dell’abuser, Lucky di Alice Sebold, che parla del suo percorso da survivor, poi Not that bad di Roxane Gay e Queering and sexual violence di Jennifer Patterson e Reina Gossett. In generale è importante variare nei riferimenti: scegliere un libro o una serie che parla di una donna cisgender bianca e poi uno sulla cultura queer, nera, sugli uomini. È giusto avere un approccio intersezionale.
Spesso quando si parla di cultura dello stupro una risposta frequente è “Non tutti gli uomini sono violenti” .Perché questa risposta è più dannosa di quanto sembra?
Not all men è una cosa pericolosissima perché aiuta a lavarsi le mani, è uno scarico di responsabilità. Se tu non stupri ti senti a posto, ma in realtà ci sono tante altre cose che potresti fare per contrastare la cultura dello stupro o che fai per alimentarla. C’è un’emergenza e questa coinvolge tutti gli uomini, che devono cambiare il proprio punto di vista e la propria idea di consenso. Il minimo indispensabile per essere una persona dignitosa non basta. È fondamentale ascoltare persone che vivono esperienze diverse dalle proprie, riconoscere il proprio privilegio e puntare l’attenzione sui comportamenti scorretti e diffusi che fanno parte della cultura dello stupro. Lavarsene le mani contribuisce a questo meccanismo che danneggia tutti.
C’è un’accusa silenziosa verso espressioni come femminicidio, cultura dello stupro, catcalling, etc. Nei media tradizionali, penso ai giornali, non vengono utilizzate o poco. Che importanza ha secondo te chiamare questi fenomeni con un nome specifico?
È vero, ma non c’è sempre stata questa assenza. È in corso una narrazione tossica, data dalla disinformazione, che dipinge gli uomini come vittime del nuovo femminismo e da quando c’è questo revival i media non usano termini troppo femministi o usati da chi parla di femminismo, perché sono spesso scomodi. La battaglia contro il sessismo e la cultura dello stupro, però, è una battaglia di società che riguarda tutti e in cui tutti devono prendere parte. Una società che tutela le categorie marginalizzate fa bene a tutti. E questo passa dalle parole. Quando dai un nome a una cosa la rendi visibile, la studi, dai modo di esprimersi a riguardo. Parlare di omicidio passionale e non di femminicidio cambia la percezione del fatto. E questa narrazione fa male a tutti i generi. Chiamare le cose con il proprio nome, invece, dà modo di riconoscere l’esistenza di un fenomeno e dà degli strumenti per reagire.
Quando si sentono frasi come “Certo che con quella gonna così corta…”, “È normale che se ti vesti così attiri gli sguardi” o, d’altro canto, “Con il corpo che hai è già tanto che qualcuno ti abbia prestato attenzione. Non lamentarti”, è chiaro che c’è un rapporto tra i pregiudizi nei confronti dei corpi, soprattutto delle donne, e la cultura dello stupro. Quale secondo te?
C’è da dire che se fai parte di una categoria marginalizzata, è già tanto se ti permettono di avere un corpo. Nel momento in cui si parla di corpi non conformi, soprattutto femminili, c’è la vergogna, la necessità di coprirlo. Quando si parla di un corpo disabile, grasso, transgender, c’è la narrazione del “Va be’, è già tanto che qualcuno t’ha scopata”. Bisogna capire che lo stupro non riguarda il sesso, ma è sempre una questione di potere. Quindi i corpi non conformi, nello stesso modo in cui possono essere feticizzati e sessualizzati, possono anche essere stuprati. Questa mentalità porta a dare sfiducia alle vittime, a non credere loro e per contrastarla bisogna ampliare la rappresentazione.