Perché “Ben is back” è un colpo al cuore, ma è necessario
Di Alessia Casteni
Ben is back è un lungometraggio del 2018, diretto da Peter Hedges.
Il regista, già autore del magnifico libro, poi film What’s eating Gilbert Grape con un giovanissimo Leonardo Di Caprio, con Ben is back ha ricevuto consensi e riconoscimenti nei festival internazionali, dal Toronto International Film Festival al Festival del Cinema di Roma.
Il film si apre con Ben, interpretato dal figlio del regista, Lucas Hedges, che torna a casa per le festività natalizie, sullo sfondo una cittadina americana, all’interno di una famiglia borghese.
La madre (Julia Roberts) è felice per questo ritorno inaspettato, dal momento che il figlio diciannovenne è ospite di una comunità di recupero per tossicodipendenti, mentre il nuovo compagno e la figlia maggiore appaiono invece più sgomenti e prevenuti.
In effetti, come insegnano le tragedie, basteranno solo 24 ore per infrangere definitivamente la quiete iniziale.
Ben, suo malgrado, si troverà ad essere portatore di una serie di sconvolgimenti famigliari che porteranno a un epilogo importante.
Il titolo stesso appare già come un presagio di quello che ci attende: la ripetizione di una storia già accaduta nel passato di questa famiglia, che ritorna in un loop senza fine; la difficoltà di mantenere un ambiente famigliare sereno quando un membro della famiglia lotta continuamente con il canto di una sirena difficile da ammansire: quello della dipendenza.
Ben arriva a dire alla madre Holly: “Tu non sai cosa stai facendo. Io non lo merito. Se davvero mi conoscessi, la faresti finita con me.”
Holly, Julia Roberts, è la vera madre coraggio di questa storia.
Il film infatti non parla solo di dipendenza ma anche di un forte legame madre-figlio, lo stesso che può investire chiunque abbia la necessità disperata di salvare una persona cara.
Ben is back è un film deciso e forte perché racconta in modo veritiero, e senza troppi fronzoli, le conseguenze della dipendenza, non solo su chi ne soffre ma anche sulla famiglia, gli amici e tutta la sfera sociale che ruota intorno al consumatore.
Holly, al ripresentarsi di comportamenti dubbi da parte del figlio è capace di una risolutezza che solo un amore profondo può far emergere, come accompagnare il figlio al cimitero per mostrargli quale sarà il suo posto se ricascherà nelle sue vecchie abitudini.
Nulla può fermare questa donna, che quando sente che il figlio è davvero in pericolo parte per una rischiosa spedizione sola, senza condividere l’angoscia e la preoccupazione nemmeno con il compagno.
Il personaggio di Julia Roberts è in questo senso portatore di un virtuoso tipo di forza, tutta femminile, di cui noi donne spesso nemmeno ci accorgiamo.
La forza d’animo, del dare il tutto per tutto con una leggerezza e un’incoscienza a volte esagerate, un inno all’istinto al quale non possiamo ribellarci perché faremmo un torto imperdonabile al nostro cuore.
Il finale del film è un’escalation di pathos e adrenalina; non ve lo svelo ma sicuramente vi terrà fino all’ultimo con il fiato sospeso.
È un lieto fine oppure no? Semplicemente è la vita.
Questo lungometraggio è coraggioso perché porta sullo schermo una realtà scomoda che non viene spesso raccontata o analizzata se non da chi ha la sfortuna di farne parte.
Il consumo di droga è attualmente un grave problema sociale radicato in tutti i Paesi anche se con sostanze, modalità e fruitori diversi.
In America, in seguito alla pandemia Covid, le morti per overdose sono aumentate esponenzialmente.
I dati forniti dall’ Ama (American Medical Association) prevedono che alla fine del 2020 verrà registrato il maggior numero di morti per overdose nella storia degli Stati Uniti. Già l’anno scorso l’overdose di prodotti riconducibili all’oppio era la prima causa di morte negli Stati Uniti tra gli under 50.
La dipendenza è un’epidemia che sta uccidendo più persone della guerra in Vietnam.
Le morti sono dovute soprattutto al sovradosaggio e all’utilizzo non terapeutico di farmaci legali prescritti dai medici.
In Italia la situazione non è migliore.
I dati rispetto ai consumi del 2020 vedono aumentare le morti per overdose dell’11% rispetto al 2018; quasi la metà è causata da abuso di eroina. Aumentano la diffusione di cocaina, droghe sintetiche e sostanze psicoattive secondo la relazione annuale del Dcsa (Direzione centrale per i servizi antidroga).
A Milano, dove il bosco di Rogoredo è diventato una realtà conosciuta mediaticamente da alcuni anni, il popolo dei consumatori è fatto di adolescenti, tanti italiani, senza distinzione di condizione sociale. Arrivano anche da altre città per procurarsi le dosi, sempre più economiche e letali.
La compravendita di droga si associa spesso alla prostituzione e i costi di quest’ultima sono regolati in base ai prezzi dello spaccio.
L’intervento da parte dello Stato esiste ma non è risolutivo al momento.
Non vengono ancora sperimentate le “stanze del consumo” che offrirebbero una serie di opportunità, come l’intervento immediato in caso di overdose, il contenimento del contagio di malattie, il consumo controllato e la presenza di operatori socio sanitari per iniziare percorsi di recupero.
La situazione rimane complicata e drammatica, come per i molti genitori che si trovano a vagare per il bosco in cerca dei loro figli spesso irriconoscibili, spesso già troppo persi in questo mondo per essere salvati.