Anna Magnani tra persona e personaggio
Di Alba Coppola
La memoria di Anna Magnani è tuttora serbata, più che in ogni altra, nella scena notissima della sua folle corsa dietro il camion che le porta via l’uomo amato, in “Roma città aperta” (1945). Corsa spezzata dalle raffiche dei mitra nazisti che uccidono la donna davanti ad una folla muta e atterrita, e davanti agli occhi del figlioletto che, disperato, si getta sul corpo esanime della madre.
L’immagine che si costituì a emblema del personaggio, così come della persona Magnani, e che talvolta apparve quasi come condanna irrefutabile a un destino è quella di donna, spesso di madre, dolorosa. Piena d’impeto, irruente fino alla violenza verbale e a volte fisica, esacerbata, spesso amara, raramente cattiva, quasi sempre selvaggiamente sensuale.
Un’immagine che negli Stati Uniti la fece percepire come modello della femminilità italiana, immagine ancor di più radicata dopo “La rosa tatuata”, con cui la Magnani fu la prima attrice italiana a vincere l’Oscar da protagonista.
Questo avvenne forse per un pre-giudizio già di lungo corso che, inconsapevolmente, persona e personaggio Magnani contribuirono a radicare ulteriormente e a far durare ancora per molto tempo.
A partire dal primo grande film neorealista di Rossellini, seguìto dai due episodi ancora da lui diretti e da “Amore”(1948), e passando poi per ogni altra interpretazione, fosse al cinema, al teatro, in televisione, che recitasse, cantasse o rilasciasse interviste, Magnani fu per i più emblema del femminile mediterraneo e italiano.
La declinazione romana portò Fellini a rappresentarla, in quella che sarebbe stata la sua ultima apparizione, come ancestrale lupa capitolina.
Un contributo fondamentale alla fusione perfetta tra la donna Anna Magnani e la “Nannarella” romana si deve a Suso Cecchi D’Amico, che giunse a costruire alcune sceneggiature invertendo la modalità creativa tradizionale secondo cui, creato un carattere, l’attore o l’attrice deve cucirselo addosso. Valga per tutti l’esempio della parte assegnata nel film “Nella città l’inferno” (1959) a Giulietta Masina, che si ridimensionò molto a vantaggio della centralità, inizialmente non prevista, del ruolo di Magnani che grazie alla sua interpretazione vinse il David di Donatello.
L’unico regista che chiese una rottura della coincidenza fra attrice e personaggio fu Pasolini al quale per “Mamma Roma”(1962), Anna Magnani fu imposta dalla produzione. Restarono, infine, scontenti sia il regista che l’attrice: l’uno perché riteneva che il carattere sotto-proletario della sua protagonista fosse stato tradito dalla connotazione piccolo-borghese dell’interprete, l’altra perché si sentì strumentalizzata e usata fuori dalle proprie corde.
Forse il mito di “Nannarella” contiene un equivoco interpretativo nato e portato avanti nell’immaginario collettivo che, al di là delle straordinarie doti attoriali di Anna Magnani, ha finito per trasformare la rivoluzionaria mitologia neorealista di Rossellini in un’icona stereotipata e sostanzialmente regressiva.