Auto-scandaglio, definizioni e complessità. Lo sforzo di pensarsi in multipli e le sue liberatorie conseguenze
Di Mari Catricalà
A volte, l’identità è uno strano mistero poliedrico. Ci chiediamo chi e cosa siamo, cosa vogliamo e cosa diventiamo, e le risposte, se ci sono, tendenzialmente proliferano e si mantengono su un certo livello di incertezza: è difficile darci una definizione univoca – cioè, definirci con una espressione sola. Quindi ci definiamo in tanti modi, cercando ogni volta di cogliere aspetti diversi di ciò che siamo, e spesso abbiamo l’impressione che comunque non sia abbastanza, che qualcosa sfugga tra le varie definizioni ma non sappiamo bene cosa.
Quando ci penso, incappo sempre in una sensazione di disagio misto a sorpresa, perché mi sembra che la parola “identità” fallisca nel suo compito di identificare qualcun*, incluse noi stesse. La definitezza che mi aspetterei di trovare nel suo significato prima sfuma, poi scompare. A volte, l’identità è sfuggente, l’identità è strana, non univoca. A volte, l’identità è mista.
Ma non sempre e non per tutt*. Sono nata e cresciuta in un contesto familiare in cui le culture ufficiali erano tre: quella giapponese di derivazione materna, quella calabrese della zia di mio padre (mia prozia) che viveva con noi e che mi ha cresciuta, e quella lombardo-milanese-provinciale di acquisizione osmotica con il resto del piccolo mondo che avevo attorno (la scuola, la strada). Il mio sistema linguistico ufficiale era altrettanto uno e trino: il giapponese materno, il calabrese categorico della zia che non si era mai veramente integrata nel tessuto sociale lombardo e non ha mai imparato l’italiano, e l’italiano della mia zona. A scuola, questo mio sistema poliedrico si è scontrato con una (vera o presunta che fosse) univocità, che nel rifiuto del misto e delle differenze non mi ha lasciato altra opzione che la presa di coscienza di essere altro.
La mia prima identità, quindi, si è formata dall’esclusione e dalla rabbia, ed è stata la conseguenza di etichette subite e imposte in cui non mi riconoscevo. In quel microcosmo ho imparato a praticare l’auto-scandaglio come arma di difesa per iniziare a capire fin dove arrivassi, di cosa fossi fatta veramente e, soprattutto, quali parole usare per rivelarmi al mondo in autodeterminazione e non come opaco riflesso delle sue imposizioni.
Sono cresciuta a introspezione e autocritica reattive (arrabbiate), e quando, ormai post-adolescente, mi sono affacciata al mondo LGBTQIA+, non solo ho scoperto di avere un’appartenenza vastissima e di non essere sola nell’essere altro, ma ho anche capito che c’era un termine che racchiudeva tutti quei sentimenti d’infanzia e che dava una casa anche ai nuovi sentimenti, per molti aspetti simili, che stavo vivendo in quel momento. Questo termine era minoranza.
Un recente ascolto illuminante a questo proposito è stato l’episodio “Il patriarcato uccide” del podcast “Amare parole” del Post, condotto da Vera Gheno. La minoranza presa in considerazione in questo contesto è quella delle donne, e Vera Gheno osserva come la riflessione su chi si è, su come definirsi e, ancora di più, su come mettersi in discussione, sia stata portata avanti per decenni dalle donne nel femminismo. Il gruppo a partire dal quale le donne si sono definite e ridiscusse per antitesi è quello del maschio-etero-cis che, invece, non ha mai iniziato un percorso di autoconsapevolezza parallelo.
Se per le minoranze l’atto di definirsi trascende la dimensione individuale per inserirsi in quella collettiva, questo stesso atto è anche e prevalentemente una reazione di risposta all’oppressione, una necessità di coesione comunitaria per fare fronte a chi definisce denigrando sminuendo attaccando uccidendo. L’identità agita, non subita, si forma per contrasto e attraverso l’autoanalisi. Per questo non per tutt* l’identità si pone come questione vitale: la maggioranza che opprime non ha mai avuto il bisogno di definirsi, quindi di identificarsi, perché la sua è sempre stata la condizione di default, la realtà scontata delle cose. Per la maggioranza non esiste conflitto perché non le serve legittimazione.
Per secoli, le maggioranze hanno imposto nomi ed etichette alle minoranze ma non si sono mai guardate dentro per provare a definirsi a loro volta. Il che spiega il fastidio, il risolino, il naso arricciato di fronte alla sfilza di etichette “maschio-bianco-etero-cis”, ad esempio: non siamo quella cosa lì perché tutto quello che siamo è la normalità, e se ci chiami allora usciamo dalla condizione privilegiata di anonimato e questo è male, è scomodo.
Anonimato vuol dire invisibilità e invisibilità vuol dire minor probabilità di diventare oggetto di discussione, di entrare nel mirino; vuol dire nessuna esposizione, nessun rumore, preservazione dello stato attuale così come lo si conosce.
In questa ottica ho riletto una parte dell’articolo che Claudia Durastanti aveva pubblicato su Internazionale nel marzo 2021, “Traduzioni, impegno e identità”:
Il rovescio del diritto a definirsi è il diritto a dimenticarsi […] Ed è un diritto molto reclamato, molto richiesto dalle minoranze: a volte pare di sentire solo questo strepito dell’io che vuole esserci e farsi consumare, e non ci sintonizziamo con la richiesta di un io che invoca il diritto a dimenticarsi. Probabilmente perché questa richiesta fa meno rumore.
Il diritto a dimenticarsi è un concetto bellissimo nel contesto della rivendicazione di uguaglianza da parte delle minoranze: fermare, anche solo per un attimo, il rumore di fondo delle etichette che piovono sempre e solo su di loro per lasciare spazio all’oblio, al silenzio, all’essere se stesse e basta.
Ma credo sia necessario premere anche per il movimento di forza uguale e contraria. Vorrei vedere le maggioranze interrogarsi, “auto-scandagliarsi” e mettersi in discussione allo stesso modo in cui le minoranze portano avanti i loro dibattiti da decenni. Vorrei vedere etichette plurime moltiplicarsi e fragilità emergere anche per loro come segno di un percorso in atto, di una volontà di cambiamento. Perché guardandomi attorno e ascoltando le varie narrative che emergono, mi sembra più plausibile pensare che ci siano molti più multipli mescolanze intersezionalità che assolute singolarità. La differenza sta nel riconoscerlo e nell’accettarlo con benevolenza verso di sé e verso le altre persone.
Mi ha fatto riflettere una frase di Chiara Valerio citata in Dare la vita di Michela Murgia (Rizzoli, 2024), a proposito del dare nomi: «Nominare significa escludere». In un certo senso è vero, scegliere una definizione significa eliminarne altre e, come conseguenza sul significato, vuol dire iniziare a concepire un fenomeno o una persona in un senso a scapito di un altro. Ma credo anche che nominare, se fatto con programmatica radicalità, sia semplicemente il primo tentativo, molto poco adamantino, di conoscere qualcosa. Nulla vieta, se rimaniamo sulla soglia del nome in apertura ad altre possibilità, che quella prima scelta, quell’abbozzo di conoscenza, possa ampliarsi e arricchirsi. Tutto sta nella tolleranza che concediamo ai nomi e nella disponibilità che abbiamo nel vederli trasformarsi – per effetto nostro o altrui.
È parte del processo di auto-scandaglio che, alla fine, credo sia un atto di flessibilità verso se stesse e, per proprietà transitiva, verso le altre persone. Vedersi poliedriche (intersezionali!) apre la porta alle millemila possibilità (nomi) che siamo e possiamo diventare, aiutando a vedere lo stesso rumore indefinito in chi ci sta attorno. Credo che questo significhi stratificazione continua e che stratificarsi continuamente ci renda più compless*, più scomod*, quindi più liber*.