Un appartamento tutto per noi – Abbiamo ucciso l’angelo del focolare?
Di Giulia Farina
Casa.
Uno spazio nel quale si consumano e intessono relazioni, un luogo in cui prendono forma ruoli e compiti.
Un’indagine di quanto accade all’interno di questo spazio è funzionale a comprendere i meccanismi che sottendono la società, le modalità attraverso le quali si costruiscono i rapporti. Nel momento in cui, ad esempio, ci si sofferma sull’indagare come la figura femminile si muova all’interno delle mura domestiche, emerge con chiarezza quanto le stesse siano state per lungo tempo sinonimo di segregazione, separazione dalla vita pubblica, spazio nel quale adempiere – esclusivamente – ai ruoli di moglie e madre.
Naturalmente ciò è stato frutto di tempi diversi, nei quali i ruoli di genere erano fortemente categorizzati. Le limitazioni cui si è fatto cenno poc’anzi stanno infatti evanescendo pian piano, con modi e tempi diversi a seconda dei Paesi del Mondo, per spostarsi nella direzione di una femminilità che assume caratteri personali.
Le arti, come spesso accade, poichè si nutrono del reale e ne restituiscono una rappresentazione, accorrono in nostro aiuto per mostrarci il passato, il presente e l’auspicio di un futuro differente. Per questo motivo, forte della lettura di alcuni saggi pubblicati sulla rivista “Arabeschi” ho selezionato due pellicole che, a mio avviso, sondano lo sgretolarsi della figura dell’angelo del focolare e la manifestazione di una femminilità scevra da ruoli imposti, dunque scelti.
Le interpretazioni che ho analizzato sono entrambe di Alba Rohrwacher: Mina in Hungry Hearts (Saverio Costanzo, 2014) e Hana/Mark in Vergine Giurata (Laura Bispuri, 2015).
Entrambe le personagge sono sovversive, interessate ad emanciparsi e a ottenere la possibilità di autodeterminarsi. Un percorso che parte da medesime premesse, ma che si esprime in due parabole diametralmente opposte, discendente da una parte, ascendente dall’altra. A esemplificare la dissoluzione di una femminilità tradizionale è un corpo imperfetto, fragile, distante da un ideale e che si muove in spazi che sono allegoria dell’interiorità di chi li abita.
Mina, a seguito di una gravidanza indesiderata, abbraccia il nuovo ruolo di madre, che diventa per lei ossessione. Trasformatasi in madre mostruosa la protagonista imprigiona se stessa, il figlio e il marito in una casa che è rappresentazione del suo sentire: ad accogliere il nucleo famigliare è infatti un angusto appartamento, stretto e scarsamente illuminato, che diviene teatro degli scontri.
Costantemente messa in discussione Mina sente su di se un pesante giudizio di inadeguatezza, determinato dal marito e dalla suocera che diffidano dei suoi metodi educativi (effettivamente pericolosi). Frustrata e ostacolata nell’adempiere al ruolo di madre la protagonista verrà condotta allo sfinimento e, infine, alla sconfitta.
La storia di Hana si dipana in un contesto differente, che prende le mosse da un’antica legge albanese, la Kanun, che predispone una duplice scelta alle donne: cedere a un matrimonio combinato oppure divenire “vergine giurata”, mascherando la propria femminilità e vestendo i panni di un uomo.
Hana, convinta che l’emancipazione possa essere raggiunta solo attraverso la rinuncia alla propria identità, sceglie la seconda strada.
Una volta trasferitasi in Italia per raggiungere la sorella – fuggita dall’Albania – inizia per Mark un cammino di scoperta della femminilità. Un percorso che lo vede ritratto in spazi domestici che non gli appartengono e nei quali vengono messi in scena rituali di mascheramento, come nel bagno, stanza nella quale il protagonista cinge il proprio corpo per nascondere il seno.
Il moto di cambiamento sarà simbolicamente espresso dal trasferimento in un “appartamento tutto per lei”, un luogo vuoto e asettico, pronto a essere riempito di significato, così come il corpo di Mark, ora deciso a riappropriarsi di un potere di autodeterminazione che possa consentirgli di abbracciare una femminilità scevra da schemi.
In entrambi i casi, seppur secondo modalità differenti, assistiamo alla messa in scena di due donne che rivendicano il potere di scelta, che si allontanano da sistemi precostruiti. Ciò che comprendiamo, pertanto, è quanto la chiave di volta sia la libertà di scegliere chi essere.
Come ci ricorda Hana: “Libere di non essere per forza qualcosa”.