Vietato vietare. Perché abolire la prostituzione non risolve il “problema”
Di Elena Esposto
“Perché Dio ha creato gli economisti? Per non far fare brutta figura ai meteorologi.”
La vecchia battuta scherza sul fatto che gli economisti, nonostante ne abbiano la pretesa, sono spesso scarsi nel predire il futuro. La storia economica è piena di teorie scritte, riscritte, smentite e poi rispolverate ma il fatto rimane. Quando ci provano di solito gli economisti finiscono sempre per far fare bella figura ai meteorologi.
C’è un punto però su cui l’economia è praticamente infallibile, ovvero quando dice (e anche qui non tutti gli economisti sono d’accordo) che proibire non serve ad eliminare il mercato di un certo bene o servizio, anzi se possibile, i costi della proibizione sono ancora più alti di quelli che lo Stato (e la popolazione) si troverebbe a pagare in un contesto di legalizzazione.
Questo si applica a molti mercati, a partire da quello degli alcolici durante l’epoca del proibizionismo, quando le leggi restrittive non avevano eliminato la vendita e il consumo, ma li avevano semplicemente spostati sul mercato nero. Vale oggi per il mercato internazionale della droga e anche per quello dell’edilizia abusiva nei paesi emergenti (Hernando de Soto ha dedicato un illuminante saggio a questo tema, “The mistery of capital”, dove analizza i benefici economici e fiscali che si otterrebbero garantendo i diritti di proprietà agli abitanti di slums e altri insediamenti informali, invece che considerarli semplicemente “abusivi”, da scacciare1). E vale anche per il mercato del sesso.
Il mese scorso, durante il congresso del Partito Socialista a Valencia, il premier spagnolo Pedro Sanchez ha dichiarato di “voler abolire la prostituzione” considerata “una delle peggiori forme di violenza verso le donne”, facendo tornare il Paese ad una situazione di abolizionismo. Attualmente infatti la legge spagnola non penalizza la prostituzione (ad esclusione di quella esercitata in luoghi pubblici, quella coercitiva e quella minorile) e il mercato del sesso si muove in una sorta di vuoto legislativo, definito “alegalità”. Un mercato che, secondo un rapporto delle Nazioni Unite, genera profitti per 3,7 miliardi di euro.
Se possiamo imparare qualcosa dalla storia economica e da uno sguardo più da vicino al sex work ci accorgiamo facilmente che il discorso di Sanchez fa acqua da tutte le parti (e non mi dilungherò nell’analizzare quanto paternalistica e oggettivizzante sia questa visione che considera lƏ sex worker come incapaci di scegliere ed agire per se stessƏ).
Partiamo dalle motivazioni economiche. Il proibizionismo, a qualsiasi mercato si applichi, oltre a non ottenere l’effetto desiderato di eliminazione, causa ingenti costi economici e sociali agli Stati. Non solo sposta proventi che andrebbero a generare gettito fiscale sul mercato nero, arricchendo talvolta gruppi criminali e paramilitari che rappresentano una reale minaccia alla stabilità interna, ma i necessari meccanismi di controllo e law enforcement (polizia, presidio dei confini, intelligence…) assorbono risorse che potrebbero essere meglio impiegate per migliorare la vita dei cittadini.
Così come la guerra alla droga non ha piegato i cartelli, non ha reso migliori le condizioni di vita di chi vive vicino alle rotte internazionali e non ha arricchito i contadini che coltivavano oppio e coca (giusto per fare qualche esempio) l’abolizione della prostituzione non migliorerà la vita delle persone che fanno sex work. Non fornirà tutele e sicurezze a chi si trova in situazione di coercizione, a chi è costrettƏ a esercitare la prostituzione o a chi soffre quotidianamente violenze e soprusi, e colpirà duramente anche coloro che partecipano in modo attivo e consensuale a questo mercato.
I mercati sessuali sono complessi e stratificati e non possono essere ridotti ad una singola esperienza. Come spiega chiaramente Giulia Zollino nel saggio “Sex work is work” le persone che fanno sex work sono diverse, e diverse sono le loro storie. Un certo discorso pietistico e moraleggiante ci ha indottƏ a credere che tuttƏ lƏ sex worker vivano situazioni di sfruttamento e coercizione omettendo che, scrive Zollino: “Il lavoro sessuale, per molte soggettività, è uno spazio di rottura, uno spazio di espressione del sé, di azione e ribellione.”
Questo non vuole essere un discorso di mitizzazione del sex work, perché il lavoro, per quanto ci piaccia, è pur sempre lavoro e nelle parole di Zollino: “Nessun lavoro è frutto di una libera scelta e, cosa ancor più importante, non rappresenta ciò che siamo. Se fossi veramente libera di scegliere non lavorerei, probabilmente nemmeno voi.”
Il sex work è un lavoro che, come molti altri, si inserisce in un sistema sociale segnato da profonde diseguaglianze. Il mercato del lavoro è fortemente gerarchico e se la pandemia ci ha insegnato qualcosa è che non tuttƏ hanno la possibilità di scegliere un lavoro comodo, poco rischioso e facilmente convertibile in smart working. Forse il sex work non sarà la migliore opzione sul mercato ma come scrive ancora Zollino “è e dev’essere un’opzione tra cui scegliere.”
La decisione del premier spagnolo di abolire la prostituzione (sarà poi da vedere con che tempi e modalità, dal momento che ad oggi non c’è un disegno di legge chiaro) non farà la fortuna delle donne (né degli uomini o delle persone non binarie) che agiscono nel mercato sessuale, ma per moltƏ di loro significherà la perdita di una, quando non dell’unica, fonte di reddito e lƏ costringerà a spostarsi nel mercato informale, con ancora meno tutele e sicurezze.
Le eradicazioni forzate dei campi di coca con il glifosato portate avanti dal Plan Colombia non hanno fermato la produzione e il commercio di droga, ma ha messo in ginocchio i contadini, distruggendo l’unica fonte di sostentamento di intere comunità e danneggiando l’ambiente. L’idea di Sanchez non sembra molto lontana da quella dell’amministrazione Clinton.
Per convincere i contadini colombiani a produrre qualcosa di diverso dalla coca sarebbero serviti interventi infrastrutturali e a livello di mercato globale, perché coltivare un chilo di patate o di fagioli non ha lo stesso rendimento che ha coltivare un chilo di coca, ça va sans dire.
Allo stesso modo se vogliamo che le persone smettano di fare sex work bisogna far sì che ci siano alternative diverse. Scrive Zollino: “Oltre ai diritti lavorativi per lƏ sex worker, servono politiche non repressive e discriminatorie, abbiamo bisogno di leggi che garantiscano la libertà di movimento e rispettino la dignità umana. Le lotte del sex work sono intrecciate a quelle delle persone migrante.”
Detto ciò va accettato che anche di fronte ad altre alternative ci sarà chi deciderà di continuare a fare sex work, il che ci riporta all’importanza di ascoltare e rispettare ciascuna storia.
Sempre nelle parole di Giulia Zollino:
“Educarsi a una sessualità positiva e libera significa spogliarsi di tutte quelle costruzioni culturali che ci costringono in gabbie invisibili privandoci del nostro potere personale. Educarsi a una sessualità gioiosa e sana significa comprendere, ma ancor di più rispettare, coloro che decidono di monetizzare parte della propria.”
1 Ci tengo a specificare che il ragionamento di De Soto non mira a giustificare o incoraggiare l’abuso edilizio, né l’utilizzo indiscriminato del suolo, ma si orienta verso una visione di equità sociale e diritto all’abitazione in aree in cui questo non è garantito dallo Stato.