Pazza. Intervista a Camilla Marinoni
Di Elena Esposto
La prima volta che ho sentito Camilla Marinoni parlare del libro che stava scrivendo ho subito pensato che volevo leggerlo a tutti i costi e sono stata molto onorata quando me ne ha inviata una copia per poterlo recensire.
“Pazza” (edito dalla piattaforma editoriale #Readingwithlove e acquistabile su Amazon) è il frutto del lavoro di due anni nei quali Camilla ha condotto ricerche sulla storia della sua prozia Angela, che aveva conosciuto quando era solo una bambina al Manicomio di San Martino di Como.
In questo libro che è romanzo, memoir e saggio, Camilla Marinoni ricostruisce la tragica vicenda di questa donna, rinchiusa giovanissima in manicomio con la sola “colpa” di essersi innamorata di un uomo che non poteva avere.
Accompagnando Ombretta, l’altra protagonista e alter ego di Camilla, durante la ricerca che la metterà sulle tracce della prozia, anche noi conosciamo poco a poco Angela, Emilio e gli altri personaggi la cui vita è strettamente intrecciata alle vicende storiche dell’Italia di quell’epoca. Camilla Marinoni racconta quindi non solo la vicenda di Angela ma anche quella di un mondo contadino ormai perduto, con i toni malinconici del migliore realismo lombardo.
Del libro e dei suoi personaggi ho avuto modo di parlare con lei durante questa intervista. “Pazza” verrà presentato a Bookcity sabato 20 novembre alle ore 18.
Ciao Camilla, grazie mille di essere qui con noi per parlare del tuo libro. Vorrei partire proprio dalla scelta del titolo. Perché hai deciso di usare la parola “pazza” quando poi ciò che emerge dalla storia è che Angela era tutto fuorché pazza?
Questo titolo è un po’ una sfida, perché Angela in effetti non è pazza, eppure, come testimoniano i libri di quell’epoca, moltissime donne non erano pazze e venivano chiuse in manicomio perché si ribellavano a quello che le famiglie volevano da loro, oppure perché erano donne libere che ragionavano con la loro testa. Se non erro ben il 60% delle persone che venivano ricoverate in manicomio non erano malate, ma venivano rinchiuse perché andavano contro il ben pensare comune, o per ragioni politiche (molte persone finirono nei manicomi perché non erano fasciste), oppure semplicemente perché erano epilettiche.
Leggendo i libri che ci sono su questo argomento si scoprono delle storie allucinanti di famiglie che rinchiudevano le figlie ribelli, che non accettavano il matrimonio imposto loro dai genitori.
Quindi “pazza” è una sfida. In un certo senso Angela era pazza perché ha cercato a tutti i costi di avere quello che non poteva avere.
Una buona parte della sua storia l’ho romanzata, io non so se Emilio fosse davvero innamorato di lei o se l’ha solo presa in giro, però Angela voleva qualcosa di più. Non voleva solo un uomo che l’innalzasse dal punto di vista sociale, ma anche che l’amasse. Il dolore del rifiuto l’ha portata ad avere una crisi psicotica per la quale è stata chiusa in manicomio.
Quando sono riuscita ad accedere alla cartella clinica di Angela speravo di trovare delle lettere, ma nonostante i tanti anni di manicomio di lei ho trovato solo una frase ricopiata da un medico e che ho riportato nella prefazione, nella quale dice che sentiva i rami piangere. Ha passato una vita in manicomio ma nessuno l’ha mai ascoltata, e questo credo che per lei debba essere stato il dolore più grande.
Quindi in un certo senso è stato il manicomio a farla diventare pazza?
Sì, il manicomio l’ha spezzata, come ha spezzato tante altre donne. Dalla cartella clinica risulta che le sono stati fatti trattamenti con elettroshock che l’hanno resa quella che era.
Al di fuori di questo, però, era la vita in manicomio ad essere terribile. La descrizione che faccio dei pazienti che camminano come pecore tra le colonne è vera, me l’ha raccontata una capo infermiera del Manicomio di San Martino.
Alle pazienti non veniva lasciata la possibilità di fare nulla. Tu pensa alle donne dell’epoca, che si alzavano all’alba e lavoravano tutto il giorno fino a notte fonda, pensa a cosa voleva dire restare tutto il giorno senza fare niente tranne pensare alla propria situazione. Deve essere stato terribile, peggio della prigione. E in più non avevano nessuna colpa.
Guardando le foto di Angela prima e dopo il manicomio si vede come sia diventata un’altra donna. All’inizio non potevo credere che fosse lei; era come se negli anni del manicomio il suo corpo si fosse sfatto, si fosse lasciato andare. Era diventata una bambina, che poi era quello che volevano.
L’incontro che tu hai avuto con lei in manicomio ti ha segnata moltissimo. Che cos’è stato che ha fatto scattare qualcosa nella testa della Camilla bambina, che ti ha lasciato poi un ricordo così pressante?
Non so di preciso che cosa sia stato a farmi scattare qualcosa. Forse è stato tutto l’ambiente in generale.
Il Manicomio di San Martino aveva un bellissimo parco e mi ricordo tutte queste persone che passeggiavano e poi mi ricordo lei, tutta bianca, mi sembrava quasi una nobildonna. In realtà questo ricordo non corrisponde alla realtà perché poi quando ho visto le foto il mio ricordo non c’entrava nulla.
Però a me è arrivata questa immagine di lei, e ricordo che chiedeva dei figli di mia nonna, e mia nonna che parlava con lo psichiatra e gli diceva che non poteva permettersi di portarla a casa con lei anche se era guarita.
Io non capivo bene quello che stavo vedendo e così ho chiesto a mia nonna come mai Angela fosse al manicomio, perché a me non dava l’idea di essere pazza, e lei mi ha risposto che era perché si era innamorata di un medico svizzero e i loro genitori non approvavano l’unione. A me questa cosa è sembrata assurda in quel momento.
Da allora ce l’ho sempre avuta in mente. Avevo scritto un racconto su di lei e persino provato a fare una piccola ricerca ma il manicomio mi aveva bloccato perché essendo la sorella di mia nonna non era considerata parente stretta.
Poi quando nel 2017 sono andata a visitare il museo della follia a Catania, guardando le foto dei pazienti e dei loro occhi Angela mi è tornata in mente con forza e così ho deciso che una volta tornata a casa avrei iniziato la ricerca sul suo conto.
A Milano quasi per caso mi sono imbattuta in una persona che lavora al reparto psichiatrico del Sant’Anna di Como e che si è offerta di fare le prime ricerche per me.
Da questo incontro è nato tutto, perché mi ha aperto la strada permettendomi di scoprire diversi elementi della vita di Angela e finalmente, dopo due anni, di poter trovare la sua cartella clinica.
Quando hai iniziato a fare ricerche su Angela sapevi già di voler scrivere un romanzo o l’idea è venuta dopo?
L’idea di scrivere il romanzo ce l’avevo, ma volevo scrivere solo la sua storia. Poi mi è stato consigliato di inserire anche la parte della ricerca, però non volevo mettere me stessa nel libro, così è nata Ombretta, che è il mio alter ego ma ha una sua storia, diversa dalla mia.
Lei vive la parte della ricerca, è un personaggio che mi serviva per raccontare tutto quello che era successo mentre raccoglievo informazioni su Angela.
Ovviamente non è esaustivo, ho dovuto tagliare moltissimo. Ho intervistato tante persone, spesso ultranovantenni, e in certi casi avevo bisogno di un traduttore dal dialetto comasco. Queste persone mi hanno raccontato molti fatti su Emilio, nonostante ci fosse un buon fondo di omertà. In paese tutti sapevano che quella storia non doveva essere raccontata.
Quando ho incontrato l’amica di Angela, quella che nel libro ho chiamato Rosina, sono stata io a raccontarle del ricovero e della morte di Angela. Lei semplicemente aveva visto Angela sparire dal paese e non era più riuscita a trovarla. Ed è stata lei a raccontarmi l’Angela che non conoscevo. La mia Angela viva dentro il libro deriva da lei e dai suoi racconti.
Grazie alle persone che ho intervistato ho scoperto anche le storie atroci delle altre donne. Mi è stato raccontato di una ragazza giovane che era stata costretta dalla madre a sposare un vedovo per fare da mamma ai suoi figli, e di una donna che per tutta la sua vita non ha conosciuto il significato del vocabolo “giocare” ma lo ha imparato solo da anziana, grazie alle sue nipotine.
Ho scoperto un mondo femminile molto lontano dal nostro nonostante tutto questo sia accaduto meno di un secolo fa.
All’inizio, tra l’altro, ero riuscita a intervistare solo uomini, ma uno di loro mi ha detto che avrei dovuto parlare anche con le donne, perché la loro storia è diversa da quella degli uomini. È stato bello poter ricostruire tutto il mondo che c’era dietro la storia individuale dei miei protagonisti.
A proposito della ricostruzione del contesto volevo chiederti come sei riuscita a riempire i vuoti della storia individuale di Angela ed Emilio in modo così fluido. Nel racconto non si percepisce mai lo stacco tra ciò che è vero e ciò che è opera della tua fantasia. Com’è stato immaginarsi le loro vite? E quanto è stato difficile inventare ciò che mancava?
Guarda, è un po’ come se me l’avessero raccontata, e molto del racconto dell’Angela viva l’ho preso proprio dal racconto di Rosina, la sua amica. Poi ho cercato il più possibile di immedesimarmi in Angela, di provare a capire come si sarebbe comportata nelle varie situazioni.
Per esempio mi è stato chiesto se la scena dove Angela maledice Emilio fosse vera, ma in realtà l’ho inventata sulla base di quello che vedevo fare a mia nonna. Ho anche pensato che cosa avrei fatto io in una situazione del genere, e la maledizione mi è uscita spontanea.
La parte difficile è stata con Emilio, perché essendo io una donna mi è riuscito più difficile immedesimarmi in lui, e comunque nel libro penso che si percepisca che sto più dalla parte di lei.
Però anche lui era figlio del tempo, e ho cercato di immaginare cosa poteva provare in una situazione simile. Avrebbe dovuto essere una persona straordinariamente coraggiosa per sposare una contadina perché questo gli avrebbe tagliato tutte le possibilità di carriera e infatti alla fine ha sposato una donna di un ceto sociale alto e molto benestante.
Ho dovuto anche cercare di comprendere il periodo storico in cui vivevano e per farlo ho letto tantissimi libri di storia generale e di storia del paese, per capire il contesto. Il fascismo è stato un sistema maschilista ai massimi livelli quindi ho dovuto immaginarmi come si sarebbe comportato un uomo in quel campo, con quella testa, se avrebbe fatto una scelta piuttosto che un’altra.
Mi sono sforzata di entrare nella testa dei personaggi per ricostruire che cosa potevano pensare, e l’ho fatto a partire dalle briciole di realtà, da quel poco che sapevo di loro, cercando anche di mantenere il carattere lombardo, che come sai è un po’ chiuso e riservato.
Nel romanzo emergono moltissime donne della tua famiglia, come ad esempio la tua trisnonna Regina. Hai voluto rendere omaggio non solo ad Angela ma anche alla linea matrilineare della tua famiglia?
Ho voluto celebrare le donne della mia famiglia, e le donne in generale. Nel libro privilegio tutte storie femminili, anche parallele ad Angela e alla sua famiglia, perché secondo me gli uomini faranno pure la storia ma le donne glielo permettono, sacrificandosi. Queste donne hanno fatto delle cose inimmaginabili, mandando avanti le loro famiglie, essendo sempre disponibili per gli uomini, supportandoli.
Anche l’altro mio libro era molto femminile, e lo sarà anche il prossimo. Io racconto storie di donne perché si racconta sempre la storia dal punto di vista degli uomini e voglio ribaltare questa prospettiva, anche perché sono le donne quelle che fanno di più.
Mentre facevo la ricerca ho letto molti libri di storia delle donne e in uno di questi si raccontava che quando le donne hanno abbandonato la campagna e hanno iniziato a lavorare in fabbrica, si sono emancipate perché si sono rese conto che potevano fare a meno degli uomini. Gli uomini invece non sono riusciti a fare questo passaggio e sono rimasti fortemente dipendenti dalle donne, ad esempio per la gestione dei figli e della casa. Adesso forse la situazione inizia a cambiare, ma all’epoca gli uomini si appoggiavano totalmente alle donne nella sfera domestica.
Regina, la mia trisnonna, è rimasta vedova giovanissima con tre bambini piccoli e faceva la mezzadra, quindi non aveva niente e nonostante ciò, nel suo piccolo, ha creato una sorta di impero, si è resa autonoma. Non si è più risposata ed è riuscita a lasciare ai figli case e terre e perfino a far studiare il nipote.
Lo stile del tuo romanzo è molto peculiare, e spazia tra vari generi e registri, anche grazie alla scelta di inserire fonti originali, documenti e carteggi. A quali autrici o autori ti sei ispirata?
In particolare ho preso spunto da Katerina Tuckova, l’autrice di “L’eredità delle dee. Una misteriosa storia dai Carpazi Bianchi” (Keller editore), che racconta la storia di una stirpe di donne guaritrici e prevvegenti che venivano chiamate appunto dee.
Mi era piaciuto molto perché Tuckova ha inventato il personaggio di una donna che scopre che una sua zia faceva la guaritrice e, attraverso documenti e dossier, si mette sulle tracce, e fino alla fine non riesci capire se la storia è vera o finta perché utilizza un genere miscellaneo, unendo anche documenti originali, scambi di email etc.
Io volevo che questo libro fosse una via di mezzo, un romanzo certo, ma volevo anche che si capisse che la storia narrata è vera ed è per questo che ho allegato le fonti.