Il pericolo della storia unica a scuola
Di Ilaria Cappelletti
The Danger Of A Single Story (Il Pericolo di Una Storia Unica) è il titolo di una famosa conferenza della scrittrice nigeriana Chimamanda Ngozi Adichie. A quanto racconta la stessa autrice in questa conferenza, da bambina scriveva solo storie che ricalcavano i romanzi che leggeva e, dato che questi romanzi erano britannici o americani, i suoi racconti erano popolati da protagonisti che non assomigliavano a lei ed erano ambientati in un paese che non assomigliava alla Nigeria.
Adichie spiega molto bene come l’esposizione continua a un singolo punto di vista, a una singola storia, influenzi il nostro modo di guardare il mondo, formatti il nostro modo di pensare e limiti la nostra capacità di notare le differenze. Quella bambina nigeriana, che è oggi una scrittrice di fama mondiale, si era convinta che i libri per loro natura dovessero parlare solo di stranieri (bianchi) e di cose con cui lei personalmente non si poteva identificare. Questo perché era esposta solo a un certo tipo di narrazione.
Questa considerazione è molto importante ed è alla base di quello che oggi viene chiamato counternarrative, cioè l’idea secondo cui è necessario riportare fenomeni ed eventi sotto diversi punti di vista, e non solo secondo la logica mainstream, per poter fornire chiavi di lettura differenti che non appiattiscano tutto a una sola rappresentazione. Il concetto di counternarrative non sembra, però, interessare il dibattito in Italia e, cosa che trovo piuttosto sconvolgente, non sembra essere una preoccupazione della scuola.
Analizzando i nostri programmi di letteratura salta subito all’occhio come l’unico personaggio nero con cui si confrontino i ragazzi sia Othello, dopo di lui non c’è nessun altro. Perché quando studiamo il genere giallo nominiamo Agatha Christie e non Qiu Xiaolong? Come mai quando parliamo di letteratura americana leggiamo Hemingway ma non Tony Morrison? Quando parliamo di letteratura inglese potremmo far leggere dei brani di Zadie Smith ma ci limitiamo solo alle tragedie di Shakespeare. Quando in storia parliamo di colonialismo, sarebbe l’occasione perfetta per parlare di un libro come Adua di Igiaba Scego, ma non lo facciamo. Anche quando si parla di storie d’amore potremmo presentare autori originali come Chitra Banerjee Divakaruni e il suo “La maga delle spezie”, eppure leggiamo solo di amor cortese.
Le nostre classi sono composte da ragazzi di origini cinesi, bengalesi, senegalesi e albanesi e noi continuiamo a proporre storie in cui né italiani né stranieri riescono a riconoscersi, poi però ci lamentiamo perchè i ragazzi non leggono. La letteratura a scuola viene ridotta ai concetti di rima baciata e rima alternata, si fa leggere Dante quando in molti a casa non leggono nemmeno i fumetti, i nostri programmi non vanno quasi mai oltre l’800 e il criterio di scelta delle opere da studiare è puramente storico e nozionistico. I classici sono importanti ma vanno studiati quando si hanno gli strumenti per capirli, altrimenti è uno spreco di tempo che porta solo alla noia. Per acquisire questi strumenti bisognerebbe fare un passo indietro e dovremmo ricominciare a trattare la letteratura per quello che è, ovvero un filtro attraverso il quale osservare e capire il mondo, un modo per imparare a scrivere a propria volta e a esprimere il proprio pensiero in maniera coesa.
La letteratura nelle nostre scuole continua a essere bianca e per lo più maschile. Ma perché? Il problema qui non è la mancanza di materiale da sottoporre agli studenti, ma molto più probabilmente è la mancata riflessione sugli obiettivi educativi della scuola in generale e della letteratura in particolare. E così i ragazzi “stranieri” (stranieri tra virgolette perché c’è anche chi è nato qui ed è straniero solo sulla carta d’identità) si sentono sempre più stranieri. Non hanno personaggi in cui riconoscersi, non leggono sulle pagine di nessun libro la lingua dei loro genitori e non vedono foto di autori con il loro stesso colore della pelle. Continuiamo a fargli credere che la cultura non possa essere prodotta da chi non è bianco e occidentale e a fargli pensare che l’arte non sia affar loro. Allo stesso modo continuiamo a far credere ai ragazzi italiani che i loro compagni non possano diventare autori delle loro storie.
L’anno scorso al Festival di Internazionale a Ferrara, durante una conversazione tra Zadie Smith e Hanif Kureishi, una giovane donna, nera e italiana, ha fatto un intervento che mi ha colpito. Ha raccontato di essere andata negli Stati Uniti per conoscere la comunità afroamericana, dato che in Italia è ancora molto difficile trovare gruppo di appartenenza con cui identificarsi per chi come lei è portatore di due culture. È tornata delusa perché non ha trovato molto in comune con questa comunità, nera sì ma intrinsecamente americana. Hanif Kureishi ha risposto: “Mettiti a scrivere, io non vedo l’ora di leggere una storia scritta da una donna afro-italiana”. In quel momento ho pensato che anche io morivo dalla voglia di leggere una storia simile e non ho potuto fare a meno di pensare che anche tanti miei alunni muoiono dalla stessa voglia. La storia degli italiani non bianchi viene raccontata talmente poco che sembra quasi non esista, tanto da spingere questa ragazza ad andare oltre oceano per trovare qualcosa di simile a se stessa. Questo è il vuoto culturale che non riusciamo o non vogliamo colmare, ed è in questo vuoto che stiamo facendo crescere intere generazioni.
Sempre Adichie afferma che il potere si esprime non solo nella possibilità di (non) raccontare la storia di un’altra persona ma anche nella possibilità di renderla la storia ultima di quella persona. Quindi il ragazzino pakistano della 3C non esiste perché non si parla mai di storie come la sua, oppure si racconta solo della famiglia ivoriana povera e ignorante che è scappata dalla guerra, ma non della famiglia algerina di accademici che vive in centro città.
La scuola è il posto privilegiato per sovvertire questo potere ed è il luogo dove, al contrario, si potrebbe esercitare il potere di raccontare più storie. Non solo questo: la scuola è il luogo dove il potere di creare storie diverse può essere conferito a quei ragazzi che hanno bisogno di leggere storie altre dalla storia unica che ci viene propinata.
Se questa operazione di counternarrative non viene fatta a scuola, allora si tratta solo di moda, ma non sarà mai nulla di davvero efficace.