L’urbanistica femminista: ripensare le città da una prospettiva marginalizzata
Di Elisa Belotti
L’urbanistica si occupa di pianificare e costruire quartieri e città. Cura ogni aspetto degli agglomerati urbani, dalla rete dei mezzi di trasporti all’edilizia di edifici pubblici e privati. In che senso questa disciplina può essere femminista? E quali vantaggi può dare alla società intera in termini sia economici che di qualità della vita?
Caroline Criado Perez, nel suo saggio sul divario dei dati di genere Invisibili, riporta un episodio particolarmente interessante per l’urbanistica, avvenuto nel 2011 a Karlskoga (Svezia). La giunta comunale stava riesaminando ogni provvedimento per controllare che fosse rispettoso della parità di genere. Giunti al piano neve, si iniziò a esaminare l’ordine con cui i diversi luoghi della cittadina venivano ripuliti: prima le strade più trafficate e poi i marciapiedi e le piste ciclabili. L’organizzazione del servizio non teneva però conto che, statisticamente, uomini e donne si spostano in modo diverso.
Pur in mancanza di dati disaggregati per genere relativi a ogni Paese e compiendo un discorso molto binario, Criado Perez evidenzia che le donne tendono a spostarsi a piedi o con i mezzi pubblici molto più degli uomini, che sono soliti usare l’auto e, se in una famiglia ce n’è una sola, ne dispongono in via preferenziale. Le differenze, però, non si limitano al tipo di trasporto, ma alle motivazioni per cui ci si sposta nel tessuto urbano.
Gli itinerari degli uomini solitamente vanno da casa al lavoro, il che spesso significa dalla periferia al centro. Le donne, invece, si occupano maggiormente del lavoro di cura e di quello domestico, di conseguenza seguono traiettorie più intrecciate. Potrebbero, ad esempio, portare i bambini a scuola, poi andare nel luogo in cui svolgono una mansione retribuita, fare la spesa, accompagnare un familiare anziano dal medico e via dicendo. Questo tipo di movimento viene chiamato ‘trip-chaining’ ed è composto da più tappe concatenate.
Tornando alla giunta comunale di Karlskoga e al piano neve, appare evidente come dare la priorità alle strade più trafficate e lasciare per ultimi i marciapiedi significhi facilitare gli spostamenti degli uomini e rendere più difficoltosi quelli delle donne, che sono anche più numerosi. Di conseguenza il comune svedese ha scelto di invertire la sequenza delle operazioni. I costi per il piano neve sarebbero rimasti uguali e, come scrive Criado Perez, «guidare un’auto, anche con sette o otto centimetri di neve, è comunque più facile che condurre un passeggino (o una sedia a rotelle, o una bicicletta) su un marciapiede altrettanto innevato». In realtà il comune di Karlskoga risparmiò addirittura del denaro sul medio e lungo periodo. Pulire dalla neve i marciapiedi significa infatti renderli più sicuri, ridurre gli incidenti, alleggerire il carico di lavoro degli ospedali e, di conseguenza, ridurre i costi.
Perché allora inizialmente si era scelto di affrontare la neve in modo diverso? Criado Perez lo spiega così: «Il vecchio piano neve della città di Karlskoga non era stato organizzato apposta per avvantaggiare gli uomini a scapito delle donne. […] era il risultato di un’assenza di dati di genere: nel caso specifico, di un’assenza di prospettiva. Gli uomini (perché di certo erano uomini) che avevano messo a punto quel piano conoscevano le proprie modalità di spostamento e in base a quelle l’avevano progettato. Non è che volessero escludere di proposito le donne: semplicemente, non hanno pensato a loro. Non hanno pensato di chiedersi se per caso avessero esigenze diverse».
Questa assenza di prospettiva non riguarda solo il modo in cui si ripulisce la città dalla neve. Un altro ambito della mobilità e dell’urbanistica particolarmente colpito è quello dei mezzi di trasporto. Abbiamo già detto che solitamente gli uomini si spostano da casa al lavoro e cioè dal centro alla periferia. Infatti i servizi di trasporto pubblico tendono a privilegiare la mobilità verso il centro della città. Gli spostamenti brevi, che includono tratti a piedi e soprattutto che non sono direzionati verso il centro ma verso aree periferiche sono trascurati. Se si osserva la mappa del sistema di trasporti pubblici delle principali città, infatti, si nota che solitamene ne emerge una costruzione radiale, che va dalla periferia al centro e che lascia scoperte proprio le aree maggiormente percorse dalle donne e dalla loro trip chaining. Naturalmente ci sono alcuni tentativi che si oppongono a questa tendenza generale. È il caso della rete di percorsi ortogonali pensata da Ada Colau, sindaca di Barcellona dal 2015, per andare incontro alle esigenze dell’utenza femminile.
L’attuazione di un’urbanistica femminista deve considerare anche altri aspetti della vita della città, che sono più vicini ai bisogni delle donne: la sempre meno proficua distinzione tra aree produttive e aree residenziali, il costo dei mezzi pubblici in base al tempo e non al numero di corse (il trip-chaining prevede numerose corse in un intervallo contenuto), la qualità dei marciapiedi su cui le donne camminano molto più degli uomini, etc. Questi aspetti sono studiati anche in Italia da Florencia Andreola e Azzurra Muzzonigro, architette e fondatrici del progetto Sex and the City. Si tratta di una lettura di genere degli spazi urbani milanesi.
Se il caso di Karlskoga mostra che ripensare l’urbanistica in relazione al genere comporta poi dei vantaggi economici, perché non farlo in ogni aspetto legato allo sviluppo delle città? «Dietro a tutto questo c’è senz’altro un problema di risorse, ma anche, in una certa misura, di atteggiamenti e di priorità» spiega Criado Perez, «Il McKinsey Global Institute ha calcolato che il lavoro di cura delle donne contribuisce per circa diecimila miliardi di dollari al Pil annuo mondiale, ma nonostante ciò si continua a credere che la mobilità connessa al lavoro retribuito sia prioritaria rispetto alla mobilità di chi compie a titolo gratuito un lavoro di cura». Serve un cambio di prospettiva e un team di progettazione consapevole e capace di racchiudere in sé punti di vista ed esperienze diverse, in modo da non rendere la visione del mondo più diffusa l’unica possibile. Così facendo la prospettiva femminile (e femminista) sarà il primo passo verso una diversità intersezionale, che non dimentica nessuna delle comunità marginalizzate.