Il latte della madre. Recensione del libro di Nora Ikstena
Di Erica Caimi
Sono pochi i romanzi disponibili in italiano che ricostruiscono l’aria che si respirava quotidianamente nei paesi baltici ai tempi dell’Unione Sovietica, luoghi che custodiscono un passato tragico, fatto di soprusi e risvegli nazionali.
L’autrice lettone Nora Ikstena arriva in Italia col romanzo autobiografico “Il latte della madre”, edito da Voland e tradotto splendidamente da Margherita Carbonaro. La storia ci riporta a un’infanzia traumatica, ad un complesso rapporto madre-figlia sullo sfondo del regime sovietico, la cui logica era capace d’insinuarsi nelle relazioni famigliari dei suoi cittadini definendone irrimediabilmente la rotta.
Ottobre 1944, Lettonia: le truppe naziste si ritirano e l’armata rossa entra a Riga. Il romanzo inizia da qui e si protrarrà nei cinquant’anni successivi alla Seconda Guerra Mondiale snodandosi tra Riga, Leningrado e campagna lettone. Le due voci narranti, quella della madre e quella della figlia, si intrecciano e forniscono prospettive parallele maturando consapevolezza reciproca nell’arco del tempo. Nella storia di famiglia c’è anche una terza figura femminile, l’affettuosissima nonna, che vive nel racconto delle altre due e con la quale figlia e nipote instaurano rapporti differenti.
La madre è una donna ambiziosa e intelligente che diventa medico ginecologo, resta incinta e rifiuta il suo latte alla bambina perché sa che sarebbe un latte amaro, un liquido contaminato dal suo male di vivere, acuito dalla situazione politica e dalla lucida percezione di vivere in una gabbia. Per aver difeso un’amica dalle violenze domestiche del suo compagno (un militare sovietico), la donna viene estromessa dal gruppo di ricercatori di Leningrado di cui faceva parte e mandata a lavorare in un luogo sperduto. Una punizione che aggrava lo stato mentale di questa scienziata riuscita a praticare un’inseminazione artificiale in modo artigianale, che aveva un occhio diagnostico eccezionale e che in campagna si sarebbe guadagnata il rispetto di un numero infinito di donne in gravidanza che volevano essere visitate soltanto da lei. In questo quadro si aggiunge anche la figlia, finora accudita amorevolmente dalla nonna e alla costante ricerca di un contatto affettivo con la madre. La decisione di trasferirsi in campagna piomba come un macigno anche sulla piccola: deve lasciare Riga e i nonni per vivere in un luogo in mezzo al nulla con una madre anaffettiva con la quale non aveva nessun legame.
Nella vita da sole, qualcosa cambia lentamente. Non essendoci più la nonna a stabilire gli equilibri di casa, i ruoli s’invertono e la figlia diventa a poco a poco madre. Spetta a lei cercare di strapparla alle tenebre della depressione, al rifiuto apatico della vita. Le sue ossessioni s’acuiscono a tal punto da non distinguere più la realtà dai personaggi delle sue letture: è il capitano Achab che lotta contro la balena, è il Winston orwelliano stritolato dal Grande Fratello. È così occupata a lottare contro gli spettri della sua mente, da non accorgersi che i tempi stanno cambiando, che è arrivata la glasnost, che la via baltica (quando oltre due milioni di lettoni, lituani ed estoni si presero per mano nell’agosto del 1989 formando una catena che unì Tallinn, Riga e Vilnius, per protestare ed esprimere la loro voglia di autodeterminazione) sarebbe diventata la prima pagina della storia d’indipendenza lettone. Le sarebbe bastato aggrapparsi a ciò che aveva, il lavoro, le sue pazienti, la figlia, l’amica Jesi, e avrebbe visto crollare il muro di Berlino e la bandiera rosso-bianco-rosso sventolare ancora su Riga.
In sintesi, il libro è una storia di emancipazione femminile in cui la Lettonia contemporanea rinasce dalle ceneri di una dolorosa memoria collettiva e famigliare.