Il pericolo di separare ragione e sentimento: una riflessione sulle disuguaglianze
Di Mari Catricalà
L’errore di Cartesio, come ha spiegato Antonio Damasio nel saggio omonimo del 1994 (la traduzione italiana è di Adelphi), è stato quello di postulare il dualismo di mente e corpo, cioè la diversità e la separazione sostanziali di questi due elementi: la mente come unica fautrice dell’identità di un essere umano (presupponendo che si riesca a dare una definizione di tale identità); il corpo, invece, come qualcosa d’altro, che con la nostra essenza non ha nulla a che vedere, un’estensione che è praticamente una contingenza. È il celebre principio «Je pense donc je suis» o come è stato riformulato in seconda battuta «Ego cogito, ergo sum» – il «Penso, dunque sono» del filosofo francese René Descartes, appunto, vissuto a cavallo tra Cinque e Seicento, che proprio con questo principio ha informato non solo gran parte della filosofia occidentale ma persino la neurobiologia moderna.
Damasio, neurologo e neuroscienziato, per anni ha percorso con sperimentazioni, ipotesi ed evidenze la strada inversa al dualismo cartesiano, sostenendo la teoria per cui mente e corpo sono due facce della stessa medaglia o, meglio ancora, che la mente scorre nel corpo e che il corpo, a sua volta, influenza e plasma la mente, dalle origini della nostra specie (ma anche di altre) fino alle origini e allo sviluppo dei singoli individui quali siamo.
È dal pericolo della separazione tra mente e corpo che vorrei partire questa volta, a poche settimane dall’approvazione della legge che sancisce la perseguibilità a reato delle persone che ricorrono alla gestazione per altri. Ma potrei anche dire a poche settimane dalla conclusione di un altro anno segnato da femminicidi che, nel momento in cui scrivo, secondo l’Osservatorio Nazionale Femminicidi Lesbicidi Transcidi di Non Una Di Meno aggiornato all’8 novembre, ammontano a quota 104. Perché è nella limitazione della libertà dei corpi che si manifesta il limite della libertà individuale.
Con il corpo ci muoviamo tra le persone ed è a partire dal corpo che veniamo percepit*, amat*, giudicat*, più o meno consciamente, da quando veniamo al mondo in poi. Il colore della nostra pelle, le nostre fattezze, le scelte estetiche che compiamo ci collocano in spazi sociali (e linguistici, mi verrebbe da aggiungere) ben determinati, in una società in cui queste caratteristiche sono oggetto di giudizio costante, positivo o negativo a seconda delle apparenze. E quando è il corpo a subire un giudizio, come reagisce la nostra mente? Come cambia poi la percezione di noi stess* e della nostra identità? Le idee e le opinioni a cui diamo voce si traducono spesso in azioni: sentiamo l’ingiustizia fisicamente, nei nostri corpi, ci arrabbiamo, scendiamo in piazza e manifestiamo.
Per questo credo fortemente che i corpi siano sempre politici e sociali, e che siano necessariamente il punto di partenza delle oppressioni così come delle rivoluzioni. Con i corpi ci aggreghiamo e ci allontaniamo, tramandiamo traumi atavici, aiutiamo, feriamo.
Non solo i corpi parlano delle nostre emozioni e dei nostri traumi, ma sono anche la prima cosa che le altre persone vedono e percepiscono di noi. Non riconoscere che quello che siamo viene in egual misura da quello che pensiamo e dal corpo che abitiamo rischia di portare a un cortocircuito per cui non si vede che i corpi neri vengono criminalizzati in quanto neri e che le donne vengono uccise in quanto donne. Non si vede, cioè, che c’è una disuguaglianza sistemica che ci fa agire prevalentemente contro alcune persone e meno contro altre.
Ho da poco finito di leggere un saggio di Olivia Laing, Everybody. A book about freedom, tradotto in italiano dal Saggiatore con il titolo Everybody. Un libro sui corpi e sulla libertà. Laing ripropone spesso il concetto di corpo come una prigione: nasciamo entro categorie linguistiche ben definite e ci ritroviamo impigliat* in corpi particolari, il che significa rimanere bloccat* in una griglia di pensieri che ruota attorno al significato di questi corpi, a cosa siano capaci di fare e a cosa venga loro permesso, o impedito, di fare. La “libertà” di quello che ci è concesso, una libertà forzata, delimitata, quindi di fatto una non-libertà, si abbatte sui nostri corpi ergo sulle nostre menti e ne accusiamo il colpo; ma Laing ci mostra un tentativo di via d’uscita – come questi stessi corpi, a loro volta, possano reagire e dare una nuova forma alla realtà.
Siamo corpi quando abbiamo paura e proviamo rabbia – lo sappiamo perché lo sentiamo da dentro e quello che sentiamo è in movimento, è fisico. Ma siamo corpi anche quando rompiamo il silenzio e facciamo un gran rumore. E anche questo è fisico ed è in movimento.