L’amore nell’era degli algoritmi: inferno capitalista o nuova frontiera?

Le app di dating hanno trasformato le relazioni umane in qualcosa da monetizzare e da piegare alle logiche del capitalismo. Resistere all’isolamento e all’atomizzazione creando legami duraturi e arricchenti è sempre più importante.

Di Sofia Brizio

Lo scorso anno, The Match Group, l’azienda statunitense ideatrice di app di dating quali Tinder e Hinge, si è trovata nel bel mezzo di una causa legale che accusa queste app di provocare dipendenza e di basarsi su algoritmi che in realtà non aiutano chi le usa a trovare un partner.
In effetti, in una cultura dominata dai social, in tempi recenti anche le app di dating sono arrivate a fare leva sulla dopamina e sulla gratificazione istantanea, utilizzando lo stesso meccanismo che ci induce a guardare reel su Instagram per ore senza quasi accorgercene, o a controllare ossessivamente le notifiche di like su un nuovo post.
Di fronte a questo scenario, dovremmo quindi imparare a riflettere sull’impatto del capitalismo sul modo in cui formiamo relazioni, e più precisamente del platform capitalism. 

Il platform capitalism è una varietà particolarmente insidiosa di capitalismo emersa insieme alle piattaforme social come Facebook e Instagram, che vendono i dati dei propri utenti a terze parti per poter proporre raccomandazioni più precise nelle pubblicità di prodotti, ma anche per targettizzare i contenuti proposti dalla stessa piattaforma così da indurci a trascorrervi una porzione considerevole del nostro tempo.
Il meccanismo che ne deriva, nel caso delle app di dating, è la cosiddetta gamification, ovvero la tendenza a considerare la ricerca di una relazione come un gioco che garantisce ricompense intermittenti (ossia i “like” e i “match”). 

Trattare la costruzione di relazioni umane come un gioco, però, dà origine a comportamenti scorretti che presumibilmente non adotteremmo mai offline.
Pensiamo ad esempio al ghosting, ossia la pratica molto diffusa nel mondo digitale di terminare una relazione semplicemente cessando tutti i contatti con l’altra persona senza alcuna spiegazione. Oppure il portare avanti diverse relazioni in contemporanea, spesso senza il consenso de* partner.

Il costante bisogno di dopamina sotto forma di gratificazione istantanea non ha quindi soltanto un effetto immediato sulle nostre abitudini individuali, ma ricade anche sulla collettività. In altre parole, il capitalismo relazionale delle app di dating replica gli esistenti modelli socio economici occidentali, perpetrando disuguaglianze e discriminazioni.
Prendiamo come esempio Hinge, una delle app di dating più popolari tra diversi gruppi di età e generi. Hinge fa parte dello stesso conglomerato proprietario di Tinder (IAC), che possiede più di 40 app simili, tra cui OkCupid, PlentyOfFish e Black People Meet. Questo monopolio crea un’illusione di scelta infinita, ma in realtà le app ripetono lo stesso meccanismo cambiando semplicemente interfaccia.

La conseguenza è che non solo c’è poco spazio per meccanismi e soluzioni alternative, ma soprattutto lo stesso conglomerato di aziende tech prenderà possesso dei nostri dati qualunque app noi decidiamo di usare. Questa è una pratica già comune in molte piattaforme media da Facebook a Netflix, ma è resa ancora più terrificante nella sua disumana applicazione alle relazioni romantiche e/o sessuali. 

Alfie Brown, professore di Digital Media Culture and Technology alla Royal Holloway Univerisity, ha scritto un libro su questo tema: Dream Lovers: The gamification of relationships. Brown definisce Hinge una “fabbrica di relazioni a breve termine” concepita per un mondo in cui le relazioni sono diventate quasi un secondo lavoro e devono quindi essere rese il più possibile efficienti e flessibili alla nostra quotidianità 9-18.

L’idea di convenienza si concretizza in profili banali per cui le persone vengono “accettate” o “scartat”’ in base a poche informazioni decontestualizzate e ridotte a categorie predeterminate, come l’orientamento sessuale, politico e religioso, o cosa ci piace fare tutte le domeniche. Questa rapida scrematura è facilitata anche dal fatto che se trattiamo le relazioni come un gioco, dallo schermo del nostro smartphone nessuna delle persone che ci vengono proposte dalle app è reale finché non la si incontra di persona.
E qui sorge il problema più grande: pare che nessuno abbia più voglia di incontrarsi.
Recenti dati indicano che solo 1 su 500 dei match sulle app di dating dà origine a uno scambio telefonico o un incontro, perché le app stesse offrono la possibilità di trovare qualcuno che percepiamo come “migliore” nel giro di pochi secondi, spingendoci a lasciare indietro la persona con la quale stavamo interagendo fino a pochi minuti prima. 

Non solo, la possibilità di selezionare preferenze (e quindi includere o escludere persone dal proprio bacino di scelta) in base a categorie predefinite può incoraggiare comportamenti discriminatori come il razzismo, la transfobia o l’abilismo. Questo meccanismo, tipico del Web 2.0 e delle piattaforme social, popola quello che viene spesso definito lo splinternet  (dall’inglese “split”, ossia dividere, e “internet”).
L’internet della divisione non genera soltanto discriminazione, ma anche isolamento – che è lo scopo primario delle app di dating, perché più soli siamo, più tempo le utilizziamo.
La conseguenza, come nota Alfie Brown nel suo libro, è che “le app di dating sono interessate a organizzare l’economia del desiderio (desireconomy, ndr)” per classe, sulla base del capitalismo presente e futuro. “[Le app di dating] generano profitto e allo stesso tempo impediscono lo sviluppo di una cultura di solidarietà e resistenza,” continua Brown. 

Proprio da questo fenomeno nascono manifestazioni esagerate di mascolinità tossica, che sembrano essere diventate la norma nella sfera eterosessuale, perlomeno sulle app di dating. Ne consegue che molte donne non si sentono sicure nell’utilizzo di queste app, che diventano un parco giochi del patriarcato, ma allo stesso tempo si sentono intrappolate in mancanza di altri modi per conoscere persone nuove. Questo, ovviamente, si applica anche a molti membri della comunità LGBTQ+. 

Volendo guardare ai lati positivi, i meccanismi di categorizzazione proposti dalle app di dating possono rappresentare una fonte di sicurezza per molte persone di identità marginalizzate. Posto che molte (troppe) persone mentono sulla propria identità online e che le app di dating cominciano a essere inondate di bot e profili generati con l’intellingenza artificiale, in linea di massima è utile per una persona trans o disabile scartare a priori qualcuno che sul suo profilo si dichiara apertamente di destra o scrive battute discriminatorie, per esempio.

Inoltre, pur restando consapevol* dei rischi associati, le app di dating (se usate bene) possono in alcuni casi fornire uno spazio aperto per relazioni al di fuori dell’eteronormatività romantica, offrendo opportunità per persone aro/ace, poliamorose, o chiunque non si riveda negli schemi relazionali convenzionali e/o prediliga l’anarchia relazionale. Inoltre, per molte persone disabili e/o neurodivergenti possono facilitare interazioni che magari di persona sarebbero più complicate. 

A farla da padroni in questo scenario ci sono però gli algoritmi, probabilmente l’aspetto più inquietante e pericoloso delle app di dating. Nell’era del platform capitalism, tutto è governato dagli algoritmi, che in base ai dati che noi forniamo decidono per noi cosa guarderemo su Netflix, a quali contenuti avremo accesso su Instagram, e, sì, persino chi sarà il nostr* prossim* partner.
Anche se ci viene detto che gli algoritmi esistono per soddisfare ogni nostro desiderio, in realtà fanno il gioco di chi detiene già il potere, rendendoci schiav* di un sistema iniquo a prescindere.
Ad esempio, è stato osservato che più tempo si trascorre sulle app di dating, minore sarà la probabilità che l’algoritmo ci mostri potenziali partner di nostro interesse, proprio per il meccanismo di gratificazione di cui parlavamo prima, e per spingerci a trascorrere ancora più tempo sulla app illudendoci che prima o poi troveremo la persona che fa al caso nostro.

L’altro problema è che gli algoritmi, quando funzionano come previsto, sembrano proporre soltanto profili di persone simili a noi, creando una bolla in cui interagiamo solo con chi ha idee simili alle nostre.
Queste bolle non sono sempre negative e sono a volte essenziali per identità marginalizzate che sono maggiormente a rischio nelle interazioni con sconosciut*, ma il concetto di base presume che dovremmo volere soltanto persone simili a noi, lasciando così poco spazio per chi ha idee anche solo leggermente diverse. Qui il cerchio si chiude, e torniamo alla polarizzazione dello splinternet

È estremamente riduttivo parlare di queste questioni in termini di giusto o sbagliato, perché il mondo delle relazioni (soprattutto se associate alla tecnologia) è una zona grigia.
In una società che guadagna dall’isolamento del singolo individuo, però, è utile chiedersi che cosa possiamo fare per tessere relazioni con l’aiuto della tecnologia senza che essa diventi l’unico mezzo. Molte persone stanno cominciando a rendersi conto di questi meccanismi capitalisti e stanno cercando strategie alternative e di resistenza.

Capire che la nostra perenne insoddisfazione non è colpa nostra, ma del capitalismo, è il primo passo per cominciare a pensare a un mondo diverso, dove le relazioni non siano un semplice passatempo o una moneta di scambio, ma legami duraturi e arricchenti.