Accompagnare la morte come atto di cura (e di lotta) e altre pratiche magiche
Di Mari Catricalà
Cos’è una buona vita e cos’è una buona morte? Cosa fa di me una figlia (sufficientemente) buona?
Marianne Brooker dissemina queste domande nel suo saggio autobiografico Intervals, che è anche un memoir e un manifesto femminista e sociale sul fine vita, edito dalla casa editrice londinese Fitzcarraldo Editions nelle prime settimane del 2024. Non sono domande che si aspettano una risposta risolutiva ma domande che aprono discussioni intime, collettive e, con mia grande sorpresa, poco morali. Attraversando questi interrogativi, a più riprese e con grande lentezza, ho scoperto una storia politica e inaspettatamente magica.
Con Intervals Marianne Brooker racconta la propria esperienza di figlia e di caregiver (persona che si prende cura di una persona malata) della madre affetta da sclerosi multipla che sceglie di rinunciare all’ingestione di cibo e liquidi optando per una morte consapevole, volontaria e assistita. Questa pratica, in Inghilterra, dove Brooker e la sua famiglia vivono, è conosciuta con l’acronimo VSED, Voluntarily Stopping Eating and Drinking. È una pratica che prende posto nelle zone grigie della legge di un paese che, come l’Italia, non legalizza l’eutanasia.
Brooker dipinge un quadro e allo stesso tempo stila una denuncia puntuale del sistema sanitario pubblico britannico che, rifiutandosi di regolamentare il fine vita, di fatto lascia al caso e molto spesso al solo volontariato l’assistenza delle persone che scelgono di interrompere interventi medici e sostentamenti per evitare di prolungare le sofferenze causate da malattie incurabili e progressive. È un rifiuto che costa caro sia a* malat* sia a* loro caregiver non solo in termini economici (non tutte le persone possono permettersi di pagare professionist* che assistano il fine vita) ma anche in termini psicologici e operativi per l’esposizione ai rischi di una morte scelta ma non supportata in sicurezza. Tanto di quello che Brooker scrive emerge da un terreno fatto di lotte e scritture femministe che si sono espresse estesamente su questo tema.
Il sistema sociale è patriarcale quindi intrinsecamente iniquo. Ma quali sono le implicazioni specifiche nel contesto sanitario? Cosa vuol dire che la sanità pubblica marginalizza intere categorie di persone, come ad esempio le persone disabili e le persone che vivono in una condizione di totale o di semi-totale povertà? Vuol dire, prevalentemente, isolamento. Negare l’accesso a piani di cura “avanzati” perché più costosi significa, con sinistra ironia, condannare all’isolamento quelle categorie che più necessiterebbero assistenza completa perché già invisibili in partenza.
Brooker dice che è con la disabilità che si manifesta la fragilità della struttura sociale nelle sue disuguaglianze. Le categorie già marginalizzate finiscono per essere ulteriormente isolate proprio quando le loro condizioni psicofisiche ed economiche richiederebbero maggiore aiuto, maggiore presenza.
Da e dentro questo vuoto sociale Brooker afferma la necessità di un sostegno collettivo che parta dai singoli individui, il bisogno di trovare dei modi in cui sorreggerci l’un* l’altr* mentre cadiamo, perdiamo il controllo, nella consapevolezza che comunque ci sarà qualcun* a sostenerci. Sapere che ci sono io, ci sei tu, e c’è uno spazio, un intervallo, tra me e te che non è distanza ma una zona di supporto reciproco, di attività relazionale.
“Non possiamo rinunciare alla cura reciproca, per quanto difficili siano le circostanze. Dobbiamo prendere e condividere i rischi, insistere sul fatto che le nostre vite e le nostre morti sono più che sopportabili.”
È vero che i diritti sono importanti e, entro una certa misura, esistono a salvaguardia delle nostre necessità. Ma spesso sono anche frammentari e incompleti e lo sono perché nascono dalla lotta che abbiamo fatto per conquistarli – i diritti sono l’altra faccia dei doveri, cioè il risvolto di un’imposizione; sono la concessione di una società che accoglie, include, elargisce sempre all’interno di una gerarchia prestabilita per cui la società al vertice legifera per chi sta ai piani di sotto. Perché la chiamiamo “lotta per i diritti” e non parliamo invece di qualcosa che ci appartiene già per il solo fatto che esistiamo? È un atto di protesta che ci troviamo a compiere contro una coercizione, quindi una violenza, che subiamo e di cui vogliamo liberarci. Se i diritti vanno conquistati e vengono, forse, a volte, in maniera incompleta, concessi dall’alto allora non sempre è giusto aggrapparcisi e magari ha più senso rimetterli in discussione per migliorarli.
Anche perché, tornando al caso specifico dell’autodeterminazione nella morte, ma potendo anche generalizzare la riflessione ad altre lotte, «la questione non è se sia giusto o meno cambiare questa legge specifica, ma come possiamo cambiare le condizioni politiche e sociali in cui le leggi in generale vengono fatte».
Se spostiamo l’attenzione sugli individui, però, la società come struttura passa sullo sfondo. È nell’intervallo che si crea tra le singole persone che l’attivismo e la politica si trasformano in pratica magica, che è qui sinonimo di creatività immaginazione narrazione. Le parole che pronunciamo in alcune circostanze, come quelle del confine sottile tra la vita e una morte consapevole, desiderata, accettata, possono diventare incantesimi. Sono parole spesso soppesate, caute, che riverberano in uno spazio-tempo limitato, e per questo trasformano la realtà di chi ci è immers* in un moto ondivago di pragmatismi e di metafore. L’intervallo è tra malat* e caregiver ma anche tra la vita e la morte ed è il risultato della combinazione di queste parti che si fondono e cercano di trovare un equilibrio inedito. Sostare su questa soglia relazionale non vuol dire costringere o convincere l’altr* a cambiare idea, ma piuttosto significa «stare con il problema» e imparare, con estesa immaginazione, a conoscere il corpo che cambia e ad ascoltarne le nuove esigenze, non in solitaria ma in cura reciproca.
“I legami potrebbero essere più potenti dei diritti; sono indissolubili e rappresentano un mutuo impegno a rimanere coinvolt* reciprocamente al di là degli stretti limiti della legge.”
Dice la scrittrice e ricercatrice femminista Lola Olufemi. Forse è più importante il legame che creiamo tra di noi rispetto ai diritti concessi da una società che ci include a pezzi ma non ci vede davvero e per intero.
Laddove ci sono delle mancanze strutturali nella società, quindi laddove un intervento politico è richiesto ma ancora non esiste, allora la magia intesa come capacità di immaginare qualcosa che ancora non c’è, come capacità di creare e di compensare, è la reazione più spontanea. E lo storytelling, cioè l’atto di raccontare storie, può essere lo strumento privilegiato per esprimere sé stess* e ricevere l’altr* in trasformazione, creando collegamenti nuovi o portando alla luce quel che prima era nascosto. Questa è pratica magica.
Chi necessita cura soffre e vive la perdita tanto quanto chi la cura la offre. Se questa consapevolezza relazionale raggiungesse la società nel suo insieme, oltrepassando i confini dei rapporti individuali, che tipo di incantesimo avremmo?