L’oscillazione dell’attivismo
Di Elena Esposto
Incontrare il femminismo è la cosa migliore che mi sia capitata. Se non avessi trovato il coraggio di dirmi “femminista” non avrei neanche avuto quello di prendere in mano la mia vita, di divorziare, di ritrovare una relazione sana con la mia sessualità, di far nascere in me la consapevolezza del mio essere donna nel mondo.
Non mi sembra di esagerare dicendo che il femminismo mi ha salvato la vita, che ha creato una frattura fra il prima e il dopo, un cambiamento epocale che vivo ogni giorno, con entusiasmo e anche con fatica.
Lea Melandri scrive che il sapere che ci viene dal risveglio femminista non è un
sapere organizzato ma, innanzitutto, una presa di coscienza: un salto, ma rottura, rispetto ai saperi e alle metodologie date. Più che all’ apprendimento, assomiglia alle conversioni. È un’esperienza personale, un vissuto, che si può anche perdere, che comporta spostamenti nell’ equilibrio interno tra inconscio e coscienza, sentimento e ragione.
Trovo che Melandri dica qualcosa di straordinario e rivoluzionario in queste poche righe, gettando una luce nuova (anche se l’ha scritto qualche decennio fa) sul modo che spesso abbiamo di considerarci femministe.
Ho la sensazione che sia fuori che dentro il femminismo ci sia una sorta di tendenza a pensare che una volta che ti sei scoperta femminista sarai femminista per sempre, e in ogni ambito della tua vita.
Questo naturalmente sarebbe il desiderata, ma la realtà ci mette davanti un quadro più complesso.
Proprio come scrive Melandri, anche se il sapere femminista nasce dall’esperienza personale, da qualcosa che ci tocca nel vivo e nel profondo, lo possiamo anche perdere. Personalmente non credo che possiamo dimenticarcene (una volta aperti gli occhi è impossibile ignorare quello che abbiamo visto) ma sicuramente possiamo abbandonarlo, possiamo essere incoerenti nella nostra pratica quotidiana, diventare incapaci di mettere in azione i pensieri e i valori che sentiamo nostri.
Riflettendo su quella che ho deciso di chiamare l’”oscillazione” femminista mi sono chiesta quali possono essere le sue origini e le sue motivazioni e partendo dalla mia esperienza personale, da quella di alcune sorelle di lotta e dai libri, sono giunta alla conclusione che ci sono tre tipi principali di oscillazione.
La prima, la più facile e, a mio avviso, la meno pericolosa è quella conscia e volontaria che si presenta tutte le volte che decidiamo di mettere un attimo in pausa il cervello for the sake of entertainment.
Per farvi un esempio personale: essendo cresciuta a pane ed Eminem ho dei gusti musicali che potrebbero essere discutibili, e infatti mi è già stato fatto notare più volte che ascoltare musica dai testi misogini e che incitano all’oggettivizzazione delle donne è in netto contrasto con il mio essere femminista.
Vorrei poter aprire qui una parentesi sul fatto che non tutto il rap/trap/hip-hop/funk è misogino ma non è il luogo adatto. Rimane il fatto che quando la sera torno a casa in autostrada non ho dubbi su quale ritmo voglio che faccia vibrare l’abitacolo. Sono perfettamente conscia di quello che sto ascoltando ma cerco di chiudere le orecchie ai vari b*tch nei testi e vado avanti con la mia vita. Potete giudicarmi, se volete, ma sappiate che diffido sempre di chi sostiene di non avere scheletri nell’ armadio (ad esempio, sicure di non essere fan di Big Bang Theory o di Sex and the City? Just asking…)
La seconda oscillazione è più sottile e difficile da controllare, perché è del tipo involontario e inconscio.
Per fare un altro esempio personale vi dirò che sono cresciuta in un ambiente in cui mi è stato insegnato che il mio corpo non andava bene, in cui “grassa” era un insulto, in cui il corpo era il principale metro di giudizio di una persona nella sua interezza.
Ho studiato e lottato per cercare di disinnescare la mia grassofobia interiorizzata e il femminismo mi ha aiutata a decostruire l’immagine negativa che per trent’anni ho avuto del mio corpo, eppure dentro di me c’è ancora una vocina che mi dice che dovrei muovermi di più o iscrivermi in palestra, che quel gelato non avrei dovuto mangiarlo e ci sono ancora mattine in cui rientro in casa a togliere la gonna e mettere i jeans dopo aver visto il mio riflesso nel vetro del portoncino d’ingresso.
Anche se a livello razionale so perfettamente che il mio corpo non ha nulla che non va, a livello emotivo decenni di bullismo, di sguardi giudicanti e di commenti sprezzanti hanno lasciato un segno che nei momenti di fragilità ancora emerge e che, ovviamente, mi fa incazzare da morire perché mi sembra che metta in dubbio tutto, a cominciare da me come femminista.
Non è così. Leggendo “Quaderno proibito” di Alba de Cespedes mi sono resa conto chiaramente che una lucidissima consapevolezza mentale può benissimo convivere con comportamenti contraddittori e, a prima vista, inspiegabili.
Il romanzo, scritto in forma di diario, racconta la storia di Valeria, una donna della classe media romana degli anni ’50 che un giorno, per un impulso che neanche lei riesce a spiegare, acquista un quaderno dal tabaccaio e inizia a tenere un diario. La scrittura si rivela da subito un potente strumento per scavare in sé stessa e iniziare a notare dettagli della sua vita che prima non aveva mai visto.
Non avrei mai creduto che quanto mi accade nel corso della giornata valesse la pena di essere notato. La mia vita m’è sempre parsa piuttosto insignificante, senza avvenimenti notevoli fuorché il mio matrimonio e la nascita dei bambini. Invece da quando, per caso, ho cominciato a tenere un diario, mi pare di scoprire che una parola, un accento, possano essere altrettanto importanti, o anche più, dei fatti che siamo abituati a considerare tali.
Attraverso le annotazioni sul diario Valeria assume sempre più consapevolezza del suo essere nel mondo e con ciò, inevitabilmente, del suo essere donna nel mondo.
Per citare Lea Melandri, nella scrittura il problema della condizione femminile per Valeria “cessa di essere solo una realtà sociale, un problema oggettivo e comincia ad avvertire i riflessi in tutto il proprio organismo, la propria persona la propria memoria, quando si accorge che i ruoli sessuali l’hanno costruita nel modo di sentire, di pensare, di desiderare, di sognare”.
E Valeria, senza ombra di dubbio, questi riflessi li avverte giungendo, in alcuni punti della narrazione, a conclusioni anche lucidissime sulla sua condizione di donna.
È terribile pensare che ho sacrificato tutto di me stessa per portare a termine compiti che essi giudicano ovvi, naturali.
Non immaginerebbe mai [il marito] che io tengo un diario; gli è più facile credere che io ubbidisca a un sentimento colpevole piuttosto che riconoscermi capace di pensare.
Non sapevo per chi dovessi tornare a casa né per che cosa; ma sapevo che bisognava tornare e questo implacabile, assurdo dovere mi procurava una grande amarezza.
Queste riflessioni così precise e taglienti sono però intervallate da comportamenti talvolta estremamente rigidi e poco illuminati. Valeria, ad esempio, pur consapevole delle costrizioni che la società impone alle donne non esita a infliggerle alla figlia, criticando duramente le libertà che questa si prende (a onor del vero va detto che qui rientra anche una buona dose di senso di protezione e di paura di “quello che potrebbe dire la gente”, ma ci arriveremo).
È anche spietata con la nuora, e prova una sorta di gioia maligna nel vederla cadere nella stessa trappola dalla quale lei non è riuscita a liberarsi.
Mi sembra che rinunziare sia il solo modo per essere più forte di lei, per sconfiggerla, non solo oggi, ma sempre, condannandola ad ammirare una vita senza scampo, come la mia.
Tra gli sprazzi di consapevolezza e rivendicazione rimane dunque il ricordo di un certo modo di pensare e di guardare il mondo che per decenni le è stato inculcato. E se da un lato riesce a liberarsene razionalmente riconoscendo la sua assurdità e rigidità, dall’altro continua ad affiorare nei momenti in cui le emozioni e la fragilità prendono il sopravvento.
E qui veniamo alla terza oscillazione, quella di origine sociale che potremmo chiamare “di paura” o “di comodo”.
Nel 1923 lo scrittore cinese Lu Xun, commentando il celebre dramma del drammaturgo norvegese Henrik Ibsen “Casa di bambola”, disse che Nora (la protagonista che alla fine della storia lascia la famiglia e se ne va sbattendo la porta – letteralmente) dopo un finale del genere non avrebbe avuto altre alternative che diventare una prostituta o tornare dal marito. Xun non fece questo commento perché era misogino o giudicante, ma perché era un realista e sapeva che non sempre le nostre prese di coscienza trovano un riscontro nella realtà che ci circonda.
“Devo scoprire chi abbia ragione, se la società o io” dice Nora al marito nelle battute finali del dramma, prima di andarsene. Non c’è dubbio che Nora scoprirà che la ragione sta dalla sua parte, ma come spiega Xun rimarrà comunque una donna sola, che ha abbandonato il marito e la famiglia. Per il suo tempo (il dramma è ambientato alla fine dell’800), una reietta.
Anche io a volte mi sento come Nora quando la mattina scelgo dall’armadio un vestito corto o una maglia attillata. Dentro di me lo so che ho ragione io, che il mio corpo va bene così, ma so anche che facendo quella scelta non mi verranno risparmiati sguardi e commenti che finiranno per ferirmi.
Lo stesso vale per Valeria, la protagonista di “Quaderno proibito”, che pur sapendo di avere il diritto di innamorarsi e di essere felice sceglie di rimanere con il marito perché sa bene a che cosa va incontro una donna di classe media degli anni ’50 che scappa con l’amante.
Questo non vuol dire che non ci siano state donne, sia nella letteratura che nella vita vera, che hanno avuto il coraggio di sfidare le regole della società patriarcale e pagarne il prezzo.
Il fatto è che per ogni Nora, per ogni Sibilla Aleramo, siamo in 10, 100, 1000, tantissime Valerie che finiranno per fare la scelta” sbagliata”,” di comodo”, ” vigliacca”.
Qual è la morale della storia, dunque? Dovremmo rinunciare alla lotta? Soccombere o nasconderci dietro alla scusa che è troppo difficile, o che la società non è pronta alla nostra libertà e ci distruggerebbe?
Ovviamente no. La necessità dell’impegno, dell’attivismo e della lotta rimangono, così come rimane il desiderio travolgente di mettere a gambe all’aria questa società, di trasformarla radicalmente.
Insieme a tutto questo però dovremmo anche ricordarci di normalizzare le oscillazioni.
Restiamo radicali, ma senza mai essere spietate. Coltiviamo la compassione e la cura verso la nostra umanità e quella delle altre sorelle che lottano con noi.
Le contraddizioni e la fragilità fanno parte della vita umana e non dovrebbero mai diventare, come troppo spesso si vede nei dibattiti e nelle discussioni poco civili sui social media, un appiglio per attaccare e cercare di distruggere le altre (a quello ci pensa il resto del mondo, lo abbiamo visto.)
Nessuna di noi è perfetta nel suo attivismo e nella sua consapevolezza. Non tutte andiamo allo stesso passo, ma tutte possiamo sbagliare. Perché tutte siamo umane.