Siamo una falda d’acqua, siamo in movimento. O un elogio della rabbia
Di Mari Catricala
Ho dedicato i miei ultimi due anni di università allo studio delle emozioni per cercare di capire come funzioniamo emotivamente mentre leggiamo. L’ho fatto per scelta e l’ho scelto per dare sfogo a una sorta di testardo capriccio che mi portavo dentro da moltissimi anni.
In una vita a studiare i libri e la letteratura, mai mi è stato chiesto (o forse, meglio, concesso?) di parlare di cosa provassi nel leggere i testi. Al limite, ne ho un vago ricordo, alle elementari ci chiedevano di elaborare il motivo per cui ci fosse piaciuto un libro, ma nella risposta le emozioni non avevano spazio: non potevamo dire “Mi è piaciuto/Non mi è piaciuto perché mi ha fatta sentire felice/triste/spaventata”, non era un motivo adeguato. Qualsiasi spiegazione doveva contenere esclusivamente riferimenti cosiddetti “oggettivi” – “razionali”? – alla trama, alla morale, allo stile, ecc. Solo così la risposta era accettabile e si poteva intavolare una conversazione.
Eppure, se ci pensiamo, già il fatto di utilizzare l’espressione “Mi è piaciuto/Non mi è piaciuto” in riferimento a un libro che si è letto vuol dire descrivere un piacere o un non-piacere al riguardo: cioè uno stato d’animo, una sensazione. Un’emozione, appunto.
Tornando al mio testardo capriccio, questo era, in pratica, la volontà di rivendicare l’importanza della emozioni nella lettura. Volevo a tutti i costi parlarne e studiarne il funzionamento, perché le emozioni sono la prima cosa che mi ha sempre avvicinata a, o allontanata da, un testo.
Vedere come, invece, per tutto il tempo in cui sono stata a contatto con i testi in ambito scolastico e accademico le emozioni non sono state trattate, rendermi conto che, anzi, sono state spesso volutamente eclissate o derise, come se non avessero alcuna importanza o addirittura come se fossero qualcosa di cui vergognarsi, mi dava fastidio. E più pensavo alle emozioni ignorate nell’analisi accademica della lettura, più notavo come, in realtà, anche nella mia educazione, al di là dei libri, le emozioni fossero sempre state un po’ bistrattate, soprattutto nelle loro manifestazioni più dirompenti.
Sono cresciuta con la paura di sembrare eccessiva e infantile, con il conseguente senso di colpa e di vergogna, ogni qualvolta mostrassi un “eccesso emotivo” di qualche tipo.
Negli ultimi giorni, sto ripensando molto a queste dinamiche che mi avevano spinta a scrivere la tesi, e ho sentito il bisogno di scriverne ancora.
Sono giorni di forti emozioni individuali e collettive, e in quanto tali, ancora una volta, sono giorni in cui mi scontro con la reazione (c’è da dire: prevalentemente maschile) di silenziamento di queste emozioni. Soprattutto perché sono emozioni di rabbia, cioè emozioni “scomode”.
Siamo arrabbiate per l’ennesimo femminicidio, siamo arrabbiate per come viene raccontato dai media, siamo arrabbiate per i commenti derisori che ci lanciano per il fatto che mostriamo al mondo quanto siamo arrabbiate. Ma, personalmente, il mio primo istinto è sempre quello di ricacciare indietro quella rabbia, perché me ne vergogno, perché mi sento in colpa a manifestarla, forse persino perché non mi sento legittimata a provarla.
E la maggior parte delle volte, lo confesso, finisco per assecondare questo istinto costruito: l’istinto che mi è stato insegnato ad avere perché la mia rabbia – ma non quella di mio fratello – andava repressa; non era adeguata.
Di cosa mi vergogno? Forse di avere torto, di perdermi? Ho paura di essere criticabile, di fallire, di mostrarmi imperfetta, bisognosa? Forse. Forse ho solo una tale paura di non essere compresa (creduta?) che tendo a non espormi; coltivo un senso di delusione preventivo, con cui mi tutelo dal possibile dolore di non essere ascoltata. […] In ogni caso, sarà insicurezza, sarà uno sguardo maschile interiorizzato, sarà eccesso di flegma o bile nera, ma è più forte di me: non mi arrabbio e ne soffro.
La capillarità con cui mi sono ritrovata a coincidere con queste parole che Ilaria Gaspari scrive in Vita segreta delle emozioni mi ha scossa. E ho deciso di spezzare la catena di repressione che ho ben interiorizzato per lasciarmi andare. Ripetendomi che è giusto, non sbagliato, provare rabbia di fronte a certe cose; che è nobile, non vergognoso, alzare la voce per difendere un diritto.
Sono corsa a sfogliare le pagine di A room of one’s own di Virginia Woolf, ricordandomi della perorazione conclusiva del suo discorso, indirizzata specificamente alle scrittrici donne. Chi scrive ha il compito di vivere nella realtà più di chiunque altra persona, e di coglierla e di comunicarla. Perché è leggendo che si esercitano i sensi e a fine lettura si riesce a vedere il mondo più intensamente, più chiaramente. Ma bisogna scrivere sempre rimanendo se stesse e guardando le cose per quello che sono.
Solo così, le donne che non hanno avuto voce in passato potranno finalmente esprimersi tra noi e attraverso di noi.
Perché se troviamo la libertà e il coraggio di scrivere esattamente quello che pensiamo, e sappiamo andare al di là delle mere contingenze dei rapporti umani, per parlare di una realtà più vasta, più comprensiva, allora quella donne, quelle scrittrici, che immaginiamo morte e dimenticate, vivranno davvero tra noi e attraverso di noi.
Ricordo una metafora riportata in L’errore di Cartesio di Antonio Damasio. Nel descrivere l’esperienza delle emozioni, Damasio la paragona a una falda d’acqua sopra cui qualcuna cammini costantemente, formando increspature e cambiando lo scenario, ma sempre entro i limiti della falda stessa. Provare emozioni vuol dire essere in movimento, e secondo Damasio lo siamo sempre perché le proviamo in continuazione – nei picchi più alti e in quelli più bassi, così come nelle zone intermedie.
Anche quando ci sembra di straripare di rabbia e ci sembra di essere in eccesso, ricordiamoci che siamo una falda d’acqua in cui ogni movimento non solo è concesso ma è fisiologico; non c’è nulla di troppo.
Non siamo violente o pazze se ci arrabbiamo: siamo umane e ne abbiamo tutto il diritto e pure la ragione.
Se leggo libri per provare emozioni, allora qualsiasi emozione è legittimata a essere rappresentata. E a mia volta posso scrivere emozioni, posso incanalare la mia rabbia nella scrittura, per raccontare quello che sento nella consapevolezza che è l’eco di quello che altre sentono.
Arrabbiamoci finché la rivolta che è la stessa da secoli, l’ennesima, porterà i suoi frutti emotivi a compimento.
I fatti sui femminicidi dovrebbero essere più che sufficienti per almeno far ragionare su un cambio di rotta sistemico. Ma come i fatti stessi e i loro dintorni ci stanno dimostrando, non lo sono. Quindi è doveroso parlarne e scriverne ancora e ancora, ed è utile farlo emotivamente: le emozioni, al contrario di quello che normalmente si crede, sono parti integranti dei nostri pensieri e fanno riflettere sulla cosa che le ha prodotte, generano reazioni insieme emotive e razionali.
Usiamole e facciamole scorrere nelle nostre parole e in tutto quello che facciamo. Con una rabbia lodevole che non conosce vergogna e che non sta mai zitta.