Tradurre il queer fra teoria, pratica e attivismo
Di Sofia Brizio
Ormai quasi tre anni fa ho recensito il libro Il corpo del testo di Laura Fontanella per la mia prima rubrica su Le donne della porta accanto dedicata al femminismo intersezionale. La rubrica è ormai conclusa, ma Il corpo del testo rimane un libro a cui penso spesso. Un mese dopo quella recensione, ho iniziato a lavorare come traduttrice editoriale e ho compreso più a fondo le osservazioni di Fontanella. Da allora, ho maturato un interesse particolare per il campo della traduzione queer come parte integrante e insieme estensione del femminismo intersezionale.
Avete mai pensato al perché le parole che usiamo per descrivere la cultura LGBTQ+ e parecchi aspetti dell’attivismo transfemminista sono prevalentemente presi in prestito dall’inglese? La lingua italiana è davvero priva di termini equivalenti? Il campo della traduzione queer si occupa di rispondere a queste domande e molte altre: perché la sessualità è spesso fraintesa o mal descritta in molte lingue? Possiamo davvero tradurre universalmente termini come ‘gay’, ‘lesbica’ e ‘queer’, trasportandoli da un contesto culturale all’altro senza variazioni? E soprattutto, in che modo la traduzione di questi termini influenza le nostre percezioni e la formazione di identità queer?
Storicamente, chi traduce ha spesso operato sotto una sorta di autocensura, conscia o meno, che ha portato alla ‘riscrittura’ di testi originali che fosse accettabile dal punto di vista sociale e personale. Ciò significa che la traduzione è stata ed è un veicolo per mantenere lo status quo. Un esempio ampiamente citato è quello delle belles infidèles francesi, approccio adottato nel diciassettesimo secolo secondo cui, come le donne, la traduzione poteva essere bella o fedele (al testo originale), proiettando così sulla traduzione gli stessi stereotipi su matrimonio e fedeltà coniugale che permeavano la società patriarcale.
La traduzione transfemminista queer come pratica radicale e politica si pone in netto contrasto alle convenzioni sociali, inclusi i modi in cui siamo abituat* a pensare alla figura de* traduttor*. L* traduttor*, e soprattutto l* traduttor* queer, non fa semplicemente da specchio al testo originale, ma è spesso in grado di osservare la lingua di partenza con fluidità e farsi partecipe di cambiamenti importanti.
La scorsa estate sono incappata per caso in un libro che parla proprio di questo. Queering Translation, Translating the Queer (Routledge) è una raccolta di saggi, curata da Brian James Baer e Klaus Kaindle, che esplora le sfaccettature socioculturali della traduzione queer. Al momento non mi risulta che ne esista una traduzione italiana, il che mi rende difficile scrivere questo articolo senza usare anglicismi per cui non riesco a trovare un equivalente italiano. Ma se state ancora leggendo, suppongo che vi piaccia giocare con le lingue tanto quanto piace a me, e allora giochiamo.
In uno di questi saggi, lo studioso Marc Démont divide la traduzione queer in tre approcci: nel primo e nel secondo approccio (in inglese rispettivamente ‘misrecognising’ e ‘minoritisting’) il traduttore sceglie di ignorare le identità o elementi queer presenti nel testo di partenza (come nell’autocensura di cui sopra) o semplificare il testo concentrandosi solo sull’aspetto sessuale più che identitario della dimensione queer. Il terzo approccio è invece la traduzione transfemminista queer con potenziale rivoluzionario, che permette non solo di tradurre nuove opere letterarie con particolare attenzione a tutte le sfumature del testo, ma anche di ri-tradurre classici della letteratura con una visione diversa e quindi contribuire all’evoluzione del linguaggio di uso comune.
Penso a Judith Butler, che descrive il genere come un atto performativo in cui il contesto sociale in cui si nasce assegna determinati valori ai segni fisici. La costruzione del genere è una serie di atti ripetuti che il queer scardina, mescolando identità maschili e femminili oltre il binario. Per fare e disfare il genere (Undoing Gender, ndr) è necessario disfare anche la lingua e ricostruirla su nuove basi. La traduzione, per questo, è lo strumento migliore.
Voglio soffermarmi proprio sull’esempio della traduzione italiana più recente di Undoing Gender (Fare e disfare il genere di Federico Zappino, 2015) per spiegare il potenziale politico della traduzione transfemminista queer. Nel saggio pubblicato in Queering Translation, Michela Baldo osserva che la riedizione di moltissime opere di Judith Butler in Italia, avvenuta nello scorso decennio, riflette un crescente bisogno di parlare di teorie femministe e queer usando un linguaggio corretto in un panorama sociopolitico particolarmente divisivo per l’opinione pubblica, specialmente in relazione alla ‘teoria del gender’.
La traduzione precedente di Undoing Gender era del 2006, a cura di Olivia Guaraldo, dal titolo La disfatta del genere. Il termine ‘disfatta’ suggerisce non solo un’idea di passività (in contrasto all’atto evidentemente politico del fare e disfare), ma può anche evocare idee di violenza e morte, sconfitta, azioni irreversibili che sono l’esatto contrario del concetto di genere come identità fluida definita anche e soprattutto dalle parole che si usano per descriverla.
Undoing Gender è un esempio ancor più calzante se pensiamo alla traduzione come un costante fare e disfare la lingua, un processo che conferisce una sorta di ‘alterità’ alla lingua di arrivo, aprendo la possibilità di varie interpretazioni della lingua di partenza. Butler stessa, nel libro, parla del concetto di traduzione come processo di rottura delle categorie prestabilite, più che una trasposizione culturale. La traduzione, per essere tale, deve spingere sia la lingua di partenza sia quella di arrivo a dialogare costantemente, per poter mutare di forma e diventare qualcosa di nuovo al di fuori delle norme linguistiche stesse.
La traduzione, queer e non, è quindi un’entità in continuo movimento e mutamento, proprio come il genere e le identità sessuali. Per questo, tradurre da una prospettiva transfemminista queer è un elemento essenziale per diffondere storie e per fare attivismo. Le scelte traduttive dipendono spesso dal contesto culturale e politico della lingua di arrivo, che si adatta e cambia con il tempo anche grazie a traduttor* e attivist*. Soprattutto, i principi di traduzione queer sono applicabili in tutti i contesti in cui si vuole rendere un testo il più inclusivo e fruibile possibile (penso a Teoria Crip che ho recensito recentemente). È un continuo domandarsi perché usiamo determinati termini piuttosto che altri, ci aiuta a comprendere il ruolo fondamentale del traduttore ma anche a guardare con occhio critico e intersezionale le rappresentazioni di identità LGBTQ+, denunciando ingiustizie ed evidenziando unicità.