Donne e natura: storia di un’oppressione comune
Di Elena Esposto
Nel 1962 Rachel Carson, studiosa di biologia e zoologia, pubblicò un libro che rivoluzionò per sempre la scienza ambientale.
“Primavera silenziosa”, questo il titolo del libro ripubblicato proprio quest’anno in italiano da Feltrinelli, è il frutto di quattro anni di ricerca in cui Carson studiò attentamente gli effetti dei pesticidi – come il DDT- sull’ambiente, giungendo alla conclusione che il prezzo da pagare per salvare le colture da organismi “dannosi” era troppo alto.
Con una capacità non comune di guardare alla natura in tutta la sua complessità Carson riuscì a scoprire che, sebbene i biocidi utilizzati nell’agricoltura siano in teoria finalizzati alla soppressione esclusiva delle specie dannose, in realtà il loro potenziale distruttivo rimane attivo lungo la catena alimentare, colpendo anche le specie innocue.
“Primavera silenziosa” fece esplodere una bomba mediatica e dette uno scossone importante alla società statunitense, (ri)svegliando la coscienza ecologica e ambientalista.
Grazie al suo lavoro Carson riuscì a far mettere al bando il DDT, nonostante la feroce opposizione delle lobby dell’industria chimica, che fecero di tutto per screditare il suo lavoro e la sua persona. Ma la cosa secondo me più stupefacente di “Primavera Silenziosa” è la sua genesi.
Ciò che spinse Rachel Carson a dedicarsi alla ricerca sugli effetti dei pesticidi fu il fatto di essersi accorta che con il passare degli anni, in primavera, i campi erano sempre più silenziosi, il cinguettio degli uccelli e il ronzio degli insetti sempre più flebile.
Credo che non sia un caso che tra migliaia di scienziati, scienziate e persone comuni sia stata proprio lei ad accorgersene, una donna che aveva dedicato la sua vita allo studio della Natura, partendo da una grande curiosità e capacità di ascolto e di meraviglia.
E, di nuovo, non è certo un caso che l’altro libro a cui Carson lavorò tutta la vita, e che purtroppo non riuscì mai a vedere pubblicato ma che uscì postumo, si intitoli “The sense of wander”, un saggio sull’importanza per adulte e bambine di riscoprire lo stupore e la meraviglia davanti alla straordinarietà della Natura.
In realtà la storia della scienza, e più in generale dell’umanità, è costellata di donne che hanno saputo, più di chiunque altro, sondare i misteri della natura e comprenderli a fondo.
Mi sono spesso chiesta se questo legame speciale che le donne hanno con il mondo naturale, questa relazione quasi simbiotica che porta le donne, in molti contesti e culture, a essere le uniche custodi della terra e dell’ambiente, derivasse da fattori culturali o naturali.
Ho trovato una risposta tanto soddisfacente quanto dolorosa a questa domanda nello splendido e terribile libro di Susan Griffin, “Woman and nature. The roar inside her”.
Griffin, femminista di lunga data, racconta la storia dell’oppressione patriarcale delle donne e della natura dalle origini della civiltà, quando qualcuno (un maschio naturalmente) decise che l’uomo era fatto a immagine a somiglianza di dio, e che aveva il diritto di dominare su tutte le creature viventi, incluse le donne. E che le donne che conservavano i segreti della Natura erano streghe, e andavano uccise, che chi restava legata agli antichi culti naturali era adoratrice del diavolo. E che il corpo e la materia erano il male, e che solo l’anima valeva la pena di essere considerata. Ma che “gli animali non potevano avere un’anima immortale […] E fu detto che l’anima delle donne era piccola”.
E venne detto che tutta la Natura è stata creata per beneficiare l’uomo. Che il carbone è stato messo vicino alla superficie perché l’uomo possa usarlo. Che gli animali camminano su quattro zampe perché così possono essere caricati del giogo. Che i denti furono creati per masticare e che la donna ‘esiste solo per mandare avanti la razza’.
La scrittura di Griffin è un fiume in piena, carico di rabbia e di dolore e l’autrice, con uno stile polimorfico e impossibile da definire, accosta l’oppressione della Natura a quella femminile senza soluzione di continuità.
Così la differenza tra il disboscamento selvaggio, che considera gli alberi solo in base a quello che valgono sul mercato, e la scelta di una segretaria in base alla sua capacità di compiacere si annulla. Così la figura di una mucca privata del suo vitellino e munta a forza fino allo stremo può sovrapporsi senza sbavature a quella di una schiava a cui hanno tolto il figlio per venderlo e che è stata rimandata a lavorare nei campi a poche ore dal parto.
E ci venne detto che il dolore del travaglio era immaginario, e che è nella nostra natura essere isteriche, che il dolore del parto è naturale, che è nella nostra natura soffrire. Ci venne detto che il dolore del travaglio è un piacere, è così che diventiamo donne. E la vita media produttiva di una mucca è di cinque anni. (Durante il parto le mettono i piedi in staffe di ferro ). E dopo questo, la mucca non vale più la pena di essere tenuta.
E così è labile il confine tra una leonessa addomesticata e una donna costretta a essere docile e carina per compiacere il marito e la società. Ma, ci dice Griffin, la donna e la leonessa condividono qualcos’altro, oltre la gabbia e il carceriere.
Condividono anche quel ruggito sommesso, per troppo tempo represso, che infiamma il petto di rabbia pronta a esplodere. Una rabbia che come una valanga di fango e detriti ha la forza di trascinare con sé tutto ciò che trova sul cammino. L’uomo non lo sa, ancora non l’ha capito che ogni azione porta delle conseguenze, che non ci sarà pietà per nessuno davanti alle donne e alla Natura in rivolta. Che non servirà a nulla chiedere scusa.
Questa rabbia distruttrice e purificatrice è dentro ciascuna di noi: donna, bestia, albero, pietra, montagna, ed è il momento di tirarla fuori. Il femminismo non ha senso se non è accompagnato da una coscienza ecologista e anticapitalista.
La matrice dell’oppressione femminile è la stessa delle forze che stanno distruggendo il Pianeta e un’alleanza globale e senza barriere di specie è sempre più necessaria e inevitabile.
E le chiesero di essere dispiaciuta per i loro guai. Le dissero che per loro era difficile piangere. Che il dominio era ciò che ci si aspettava da loro. Dissero che non conoscevano nessun’altra vita se non quella che avevano loro insegnato. E che quindi non erano responsabili per ciò che avevano fatto o detto. Dissero che i cambiamenti che lei stava chiedendo loro erano impossibili. Che i loro corpi non potevano essere diversi da com’erano. Che nessuno può cambiare dall’oggi al domani. Che tutte le cose di cui lei parlava erano sottili e complesse. Che doveva essere più paziente. Che lei li faceva sentire in colpa. Che la colpa impediva loro di procedere. Lei li stava facendo piangere. Le dissero: abbi pietà di noi. Non si accorgeva che ci avevano provato? Non vedeva che stava pretendendo troppo? Sei irragionevole, le hanno detto. Ma lei ha risposto: mi avete già chiamata così in passato.
[…]
Si, disse lei, era diventata irragionevole. E non voglio sentire, abbaiò, nessuna delle vostre ragioni. Era stata paziente troppo a lungo. Sapete qual è stato il prezzo di questa pazienza? gridò Questo dialogo finisce qui, urlò, e giurò che la vecchia storia non si sarebbe ripetuta. Non avrò pietà di voi, ha detto. Non sentirò nessuna compassione.