Di storie, racconti e infinite domande. Qualcosa su “Lost Children Archive” di Valeria Luiselli
Di Mari Catricala
Negli ultimi giorni di agosto ho finito di leggere Lost Children Archive, un romanzo di Valeria Luiselli (Archivio dei bambini perduti nella traduzione italiana di Tommaso Pincio per La Nuova Frontiera).
Il tracciamento di lettura su Goodreads mi ricorda che ci ho messo tre mesi interi per leggerlo. Lettura lenta ma non faticosa. Mi ci sono soffermata così tanto, credo, non solo perché è una storia che ne inscatola altre ma anche perché è un romanzo che si interroga molto sul senso stesso di raccontare storie; di raccoglierle; di rielaborarle e ordinarle; di tramandarle per ricordarle ‒ o farle ricordare.
Anzitutto, c’è il viaggio in macchina (l’ultimo insieme) di una famiglia che da New York parte per l’Arizona.
La madre e il padre (o la moglie e il marito ‒ in apertura del romanzo la prima voce narrante, quella della madre/moglie, si sofferma molto sul lessico famigliare che definisce i rapporti coniugali e parentali) decidono di mettersi in viaggio con due obiettivi distinti ma verso una meta geografica comune. L’Arizona per lei significa confine con il Messico, dove le sue energie documentaristiche e investigative si stanno concentrando per dare voce alle storie dei bambini messicani che cercano di attraversare il confine con gli Stati Uniti: a volte riescono, più spesso muoiono.
Per lui, Arizona significa Apacheria, luogo in cui documentare “gli eco”, così li definisce, delle ultime voci degli Apaches, prima che venissero annientati dai popoli bianchi; come possa realizzarlo concretamente rimane una questione aperta per buona parte del viaggio. I genitori si erano conosciuti, qualche anno prima, in occasione di un progetto documentaristico sulla creazione di un enorme paesaggio sonoro fatto di voci, suoni, rumori della città di New York.
A ripensarci adesso, con queste premesse non mi stupisce che il romanzo si sia sviluppato attorno a narrazioni multiple, diramate, e nemmeno che il centro quasi ossessivo dei pensieri della madre sia proprio una riflessione metanarrativa: cosa vuol dire raccontare una storia? Che fine fanno i fatti nel momento in cui li inseriamo in una narrazione? Qual è il senso di documentare cose persone luoghi suoni immagini?
La storia, quindi, è anzitutto il viaggio. Ma è anche il racconto di come un amore adulto fondato sulla somiglianza e sulle sovrapposizioni possa, a un certo punto e senza motivo apparente, incrinarsi e finire.
Ed è un’intersezione continua di altri racconti che sono i paesaggi sonori registrati dai genitori, le elegie terribili e inventate per e sui bambini che cercano di attraversare il confine tra Messico e Stati Uniti; le canzoni cantate e ascoltate all’infinito dai figli al sicuro nella macchina; i giochi inventati dai bambini che esorcizzano le ossessioni i dubbi le paure dei genitori; i pensieri narranti della madre che a metà romanzo vengono sostituiti dal racconto-specchio del figlio che prende la parola e inizia a raccontare la sua versione degli eventi.
Racconti sono anche i viaggi stessi dei bambini perduti, tutti i bambini perduti; le mappe descritte e disegnate con un dito; i libri e i quaderni raccolti, sfogliati e letti; le foto uscite bene ma anche male scattate dal bambino con la sua nuova polaroid.
Archivio dei bambini perduti è un romanzo polifonico soprattutto perché qui i suoni sono moltissimi: quelli documentati dalla madre e dal padre, quelli prodotti dai figli, quelli che si sentono da dentro e da fuori durante il viaggio, quelli delle canzoni e degli audiolibri ascoltati in macchina. Spesso, però, questi suoni diventano anche voci, tentativi di esprimere emozioni e pensieri da punti di vista diversi; voci narranti che convergono o divergono per catalizzare situazioni o per opacizzarle, ma comunque sempre per renderle più complesse, più profonde.
Mi sono accorta, risfogliando il libro, che leggendo di seguito le mie sottolineature riesco a seguire bene lo sviluppo del dilemma della madre riguardo le storie e la loro funzione. Questo dilemma metanarrativo avvolge diversi temi e li problematizza: tutte le conversazioni familiari, le «archeologie linguistiche» che i genitori stanno registrando e archiviando con l’intento di dare un senso al presente e al futuro, daranno mai vita a una storia vera a propria? O piuttosto suoneranno come meri rumori, macerie, detriti?
Perché riascoltando le testimonianze dei bambini messicani che aveva registrato, la madre si trova inondata da dubbi ed esitazioni, impossibilitata a riordinare il materiale in una «sequenza narrativa»?
Riuscirà mai suo marito a creare un «“inventario”» degli eco degli Apaches, organizzando i suoni in un’unica storia? Magari, invece, tutte le voci resteranno individuali, ciascuna raccontando la propria storia senza che una voce sola le costringa in una narrazione collettiva?
Forse, si chiede la madre a un certo punto, gli unici davvero in grado di raccontare le storie dei bambini perduti sono i suoi figli che, tutta presa nel proprio progetto e nell’analisi intermittente del matrimonio che si stava sfaldando, non aveva ascoltato abbastanza; non li aveva registrati davvero mentre, seduti sui sedili posteriori della macchina, cantavano Space Oddity di David Bowie, recitavano i racconti degli Apaches ascoltati dal padre e facevano domande in risposta alle notizie che passavano alla radio sulla situazione dei loro coetanei al confine con il Messico.
Quando il figlio prende la parola, invece, tutto sembra ridursi senza sforzo a un’unica scommessa: lui si registra mentre racconta quell’ultimo viaggio insieme per aiutare la sorella minore, che all’epoca dei fatti aveva solo cinque anni, a ricordare, un giorno. Il bambino racconta perché è sicuro della funzione della propria narrazione: documentare con l’intento di far capire e far ricordare. Ma senza la pretesa di lasciare una versione assoluta degli eventi; solo con la volontà di trasporre e archiviare per poi far riesumare.
Il libro è davvero una raccolta democratica di storie e di voci, con mille questioni aperte che lasciano spazio a tutte le riflessioni che ci vengano in mente sull’atto di raccontare.
È il romanzo che più mi ha chiesto di tornare a ragionare sul senso per cui creiamo storie per poi parlarne; all’importanza di pesare bene le parole soprattutto quando si sta costruendo la propria mitologia familiare, per quanto fittizia.
E negli interrogativi costanti della madre ho visto la genuina ammissione dei limiti della parola: come commenta lei stessa, per quanto sottolineiamo e trascriviamo le frasi che abbiamo amato in un libro, già nel momento in cui le leggiamo per la prima volta sappiamo che quell’emozione, quel senso di perfetta connessione che percepiamo con quelle parole svanirà. La parola letteraria è un’opera d’arte e come altre opere d’arte può generare emozioni, ma qualsiasi tentativo di spiegare quelle emozioni con altre parole risulta in un’impresa impossibile. Una volta provata l’emozione, la parola (la musica, il corpo che danza) che l’ha causata scompare; oppure viene assorbita completamente, diventando qualcosa che nessuna parola può più rispecchiare.
Alla fine del proprio racconto, prima che la parola passi al figlio, la madre prova a darsi una risposta: forse, le storie non aggiustano niente ma rendono il mondo qualcosa di più complesso e tollerabile, a volte persino bello; forse, semplicemente, portano chiarezza in retrospettiva.
Io invece preferisco immergermi nelle domande che precedono e fermarmi lì più a lungo. Perché raccontiamo storie e perché non sempre ci riusciamo (non come vorremmo, almeno)?
Credo che vogliamo dare un ordine e un senso a qualcosa (gli eventi e le emozioni inevitabilmente connesse agli eventi) che spesso non è altro che un piccolo grande caos casuale. Non so se le storie portino davvero chiarezza, se sia quella la loro funzione; ma penso che spesso facciamo finta che sia così. E mi piace pensare che questo gioco di finzioni e di aspettative sia soprattutto un susseguirsi di eventi emotivi che agiamo o che ci capitano, ma che rimane, appunto, un gioco.
Niente di vero e niente di reale, poco in ordine, tutto di mobile, ma con l’origine nel sano desiderio di salvarsi dalle incertezze.