Una mostruosa vendetta contro il patriarcato
Di Giulia Farina
È necessario dare forma alla propria rabbia. Soprattutto se femminile.
La rabbia fa parte dello spettro delle emozioni fondamentali e, per quanto la società tenti di stigmatizzarla, è una risposta naturale: sorge spontanea nel momento in cui veniamo deluse, quando ci sentiamo impotenti, quando subiamo un qualsiasi tipo di violenza.
Nel momento in cui una donna dà voce alla rabbia essa, però, attira su di sé aggettivi come: pazza, aggressiva, violenta, esagerata.
La rabbia, però, ci salva. Permette di adattarsi alle situazioni e di reagire.
Ciò che ci contraddistingue pertiene non tanto il provarla, quanto piuttosto come la incanaliamo, come scegliamo di manifestarla. A patto che ci venga concesso di condividerla.
Jude Ellison S. Doyle torna alla carica con “MAW. Una mostruosa vendetta contro il patriarcato”, la sua prima graphic novel – edita da Tlon e illustrata da A.L. Kaplan – e lo fa spodestando, ancora una volta, l’egemonia maschile e dando voce ai mostri generati dal patriarcato.
Se con i suoi precedenti saggi, Il mostruoso femminile e Spezzate, l’autore decostruisce le narrazioni patriarcali che mostrificano la donna, qui compone un’architettura narrativa simile, ma al contempo diversa. I mostri non sono le donne che deviano dai binari posti rigidamente davanti a loro, semmai sono l’esasperata manifestazione di una rabbia mai legittimata, mai espressa, mai condivisa.
Per il patriarcato le donne sono un pericolo. Bene: Doyle vi fornisce un motivo per rimanerne terrorizzati.
Marion, la protagonista del racconto, è una surviror: ha subito due violenze e lotta strenuamente per sopravvivere al dolore. Ad aiutarla la sorella Wendy, che la conduce ad Angizia, un’utopica isola in cui vive una comune femminista.
Sotto la guida di Diana Spiro ciascuna donna condivide con le altre la propria storia di violenza e dà libero sfogo al complesso di emozioni da essa scaturito partorendone – letteralmente – il frutto.
La protagonista, però, non riesce a trovare conforto nelle sue sorelle: rinchiusa nella sua sofferenza soffoca ripetutamente le sue emozioni. A lei il compito di manifestare la profonda rabbia generata dal patriarcato: è lei stessa, infatti, che una notte, preda di ciò che la dilania interiormente, si trasforma in un mostro implacabile, che non cerca conforto ma solo vendetta.
Il corpo che ha subito violenza ora la crea.
La narrazione prosegue con un ritmo serrato, denso di suspense: Marion, mutata in una creatura mostruosa, passa da una vittima all’altra nutrendosi dei loro stessi corpi.
Il circolo della violenza non ha mai fine.
Siamo abituate a una narrazione della violenza ponderata, sobria, che si concentra sugli strumenti dello stato di diritto (fare in modo che si possa denunciare, che le donne vengano credute e che chi ha commesso violenza venga punito), ma in MAW non c’è spazio per l’idea di uno stato giudiziario che intervenga a sostenere le vittime.
Marion non ha ottenuto giustizia e, ora, nemmeno la desidera. L’unico obiettivo diviene lo sterminio del genere maschile, non solo di coloro che hanno attivamente commesso violenza, ma anche di coloro che non sono intervenuti per difendere, coloro che non hanno denunciato. Ed è così che Doyle tira un pugno a tutti i “Not all men”: Il punto non è mai stato se fossero o no colpevoli. Ma se a qualcuno importasse.
Ed è con nere sferzate di colore che si dipana una storia che, tramite il meccanismo narrativo dell’horror, pare lontana ma è in realtà una rappresentazione di quanto accade davanti ai nostri occhi ogni giorno.
Per narrare questo girone infernale di dolore l’unica soluzione diviene l’impiego di un genere – uno degli unici – che ammette il racconto e il confronto spietato con il dolore e la violenza.
E grazie al tratto di Kaplan, alle feroci parole dell’autore e ai topoi tipici del genere fantasy e orrorifico queste prendono forma – oltre che spazio – con una veemenza disarmante. Tutto è chiaro, non ci sono mezze misure. Marion e le sue compagne esigono che la propria sofferenza venga riconosciuta.
La società richiede alle survivor di vivere privatamente il proprio dolore, qui invece l’esternazione diviene lo strumento che supporta lo scatenarsi degli eventi.
Le donne dipinte da Doyle non vogliono ridursi al silenzio, combattono per alzare il proprio grido di guerra. Non vogliono farsi annientare, vogliono distruggere e, nel protrarsi verso l’obiettivo, sono permeate da un’aura ancestrale, quasi mitica, che avvicina il loro scopo a una missione divina.
Prendere il posto del carnefice. Può essere questa la soluzione?