Sessismo linguistico: quando la lingua ferisce più della spada
Di Paola Beltrami
Nell’articolo Verso l’inclusività e oltre, la linguista Vera Gheno definisce il sessismo linguistico come “la manifestazione linguistica della mentalità, dei comportamenti sociali, dei giudizi e pregiudizi culturali venati di (o viziati da) sessismo”. Con questo termine si esplicita dunque la narrazione tossica derivante dall’adozione di un linguaggio stereotipante e discriminante, con una conseguente marginalizzazione di qualsiasi comportamento non rientri all’interno del rigido sistema binario patriarcale, che sembra prevedere uno specifico ruolo per tutt*.
Questo fenomeno è una realtà molto meno teorica e molto più pratica e tangibile di quanto si pensi: basti pensare, ad esempio, al sinteticissimo “signorina” utilizzato al posto del titolo professionale designato. Per non parlare di ‘slur’ (termine inglese che significa “calunnia, offesa”) nemmeno troppo nascosti, che mirano ad offendere la donna basandosi su valutazioni riguardanti la condotta sessuale. Condiamo poi questo insieme con proverbi e modi di dire quali: “Donne al volante, pericolo costante”: oppure, “Chi dice donna, dice danno”. Ma cosa si nasconde dietro a questi fenomeni linguistici? Il nostro parlato contribuisce realmente alla perpetuazione di una cultura maschilista e misogina? Insomma, è possibile che il vero danno scaturisca dalle narrazioni linguistiche che tutt’ora utilizziamo?
Innanzitutto, la lingua non è un fenomeno a sé stante, ma si forma sulla realtà che tutt* viviamo e percepiamo. Le parole sono quindi lo specchio della nostra cultura, ed il sottotesto degli esempi sopra citati rivela una realtà ben chiara: la violenza di genere comincia proprio dalla declinazione del linguaggio verso il femminile in maniera svilente, associando il genere di appartenenza a stereotipi volti a marginalizzare il ruolo della donna. Una frase sessista, insomma, non è mai solamente una scelta terminologica: essa è un vero e proprio strumento di potere che sminuisce e diminuisce. Ecco perché, ad esempio, “Non fare la femminuccia!” non è affatto un’esortazione generale, ma sottolinea invece un’associazione all’idea stereotipata delle donne come irresolute ed incapaci di gestire le proprie emozioni.
La vera problematicità non risiede dunque nel linguaggio di per sé, ma nell’uso che ne facciamo. Pertanto, il sessismo linguistico è una cartina tornasole che rivela tutta la problematicità della nostra narrazione societaria. La lingua può diventare discriminatoria: parlando per metafore, potremmo dire che se la violenza di genere avesse un corpo, il linguaggio sarebbe l’arma utilizzata per discriminare chi non rientra nel canone patriarcale previsto.
La declinazione sessista di un sistema linguistico non è mai innocente: come scrive Manuela Manera in La lingua che cambia:
“[…] di fronte a chi sostiene che le parole non sono importanti, […] che ci sono ben altre questioni, tutte ovviamente più importanti e urgenti… beh, hai la certezza di trovarti di fronte ad una persona […] che non ha voglia di interrogarsi sul proprio posizionamento perché vive in una comfort zone in cui sta benissimo e non ha intenzione di cambiare lo stato delle cose”.
Per questo motivo, prestare attenzione alle parole utilizzate è il primo accorgimento che tutt* dovremmo adottare per porre fine al sistema della ‘rape culture’, ossia, la cultura dello stupro. Con quest’ultimo termine si definiscono tutta quella serie di comportamenti che normalizzano e legittimano la violenza di genere, dagli ‘slur’ misogini al catcalling, dal contatto sessuale non richiesto al ‘victim blaming’, fino alle vette più gravi di femminicidio e stupro. Pertanto, no, non è vero che le parole non sono importanti. Perché in fin dei conti, come esprime chiaramente Benedetta Lo Zito nel suo libro No significa no. Creare una cultura del consenso per combattere la cultura dello stupro, occorre chiedersi: “Qual è realmente la distanza tra la violenza immaginata e quella fisica?”
Il confine è labile, ed occorre ricordarsi che la base per la costruzione di una cultura del consenso parte proprio da un’educazione societaria, in quanto il comportamento de* singol* forma la collettività, e la collettività forma il comportamento de* singol*. Anche l’utilizzo del linguaggio può assumere contorni di violenza, ed è nostra responsabilità cambiare la narrazione. Perché no, dire donna non è dire danno, ma utilizzare una terminologia sessista e discriminatoria certamente lo crea, questo danno.