La “Snapchat dysmorphia” e l’ossessione per la perfezione
Di Martina Boselli
Negli ultimi decenni i social network hanno raggiunto una popolarità sempre maggiore; nato nell’agosto del 2003 Myspace è stato il primo vero social ad essere riconosciuto a livello internazionale, seguito a ruota nel 2004 da Facebook e nel 2010 da Instagram.
All’elenco si aggiungono in tempi più recenti Snapchat (nel 2011) e TikTok, nato dall’idea dell’imprenditore cinese Zhang Yiming e con una popolarità sempre crescente.
Secondo un rapporto del 2021 di Digital October Global Statshot di DataReportal, pubblicato in collaborazione con We Are Social e Hootsuite: “più di due terzi della popolazione mondiale, ovvero quasi 5,3 miliardi di persone, usano un cellulare, 4,8 miliardi navigano su Internet e 4,5 miliardi sono sui social media”.
I ricercatori hanno previsto inoltre che già nella prima metà del 2022 più del 60% della popolazione globale sarà sui social.
Se c’è una cosa che i Social Network che hanno acquisito popolarità in tempi più recenti hanno in comune è la centralità dell’immagine. Se con Twitter, MySpace e Facebook l’immagine rivestiva sì un ruolo centrale, ma non decisivo, oggi invece essa è tutto.
Insieme alla massiva diffusione di questi social, si sono diffuse di pari passo app e filtri dedicati alla modifica di foto; che prevedono anche un editing fotografico orientato, ad esempio, allo snellimento di fianchi e naso, all’ingrandimento di lato b e muscoli ed ogni altra possibile modifica che possiate immaginare.
Nel 2018 il medico britannico Tijion Esho ha coniato il termine “Snapchat dysmorphia”, che sta ad indicare come il disturbo da dismorfismo corporeo – ovvero la preoccupazione cronica e immotivata per un presunto difetto fisico, sia stato accentuato dall’uso eccessivo di applicazioni dotate di filtri per modificare le foto come, ad esempio, Snapchat. La riflessione di Giuseppe Polipo, presidente dell’Associazione italiana psicologia estetica, sembra confermare la teoria:
C’è stato un cambiamento epocale dei mezzi d’incontro: la richiesta di chirurgia cammina di pari passo con quella di lampade che nascondano le rughe, smartphone con filtri, una cosmesi che nasconda i difetti. C’è una specie di virtualizzazione dell’essere umano, dato che si comunica sempre meno in prossimità e sempre di più in telecomunicazione.
Il dottor Daniele Fasano, presidente della SICPRE, Società Italiana di Chirurgia Plastica Ricostruttiva ed Estetica, aggiunge:
Vengono da me e mi mostrano il cellulare. Non dicono ‘non mi piace il mio naso’, ma ‘non mi piace come viene il mio naso in foto’. È una tendenza che prima non esisteva. Parliamo essenzialmente di giovani, una fascia d’età che va dai 20 ai 40 anni. Il problema è quasi sempre il viso: naso, labbra, zigomi, sopracciglia. Si rifanno a modelli proposti da filtri, chiedendo correzioni spesso irrealizzabili. Mi è capitato di rifiutare di intervenire su pazienti. Non bisogna demonizzare la chirurgia, che spesso ha un impatto positivo sulla vita delle persone. Ma questa è degenerazione.
Naturalmente non è un fenomeno solo italiano, anzi, già nel 2017 la AAFPRS (American Academy of Facial Plastic and Reconstructive Surgery) ha dichiarato che il 55% dei pazienti che hanno richiesto procedure chirurgiche lo hanno fatto per apparire meglio sui social, constatando un aumento del 13% rispetto all’anno precedente.
Non si tratta quindi solamente di paragonarsi ad immagini fasulle e ritoccate di idoli e celebrità, bensì di voler assomigliare a quel sè stessƏ che si vede riflessƏ nello schermo, di cui non si trova corrispondenza nella realtà. Il parlamento norvegese ha addirittura stabilito che chi ritocca fotografie e filmati deve dichiararlo in modo visibile, proprio per tentare di frenare la dismorfia corporea, dilagante tramite gli standard di bellezza irrealistici diffusi su social media (e non solo).
Insieme al profondo disagio scaturito dalla dismorfofobia, anche l’ossessione compulsiva di postare continuamente selfie è diventata ufficialmente una patologia nel 2014, quando è stato inventato il termine “selfite”. Coniato da alcuni psicologi della Nottingham Trent University e della Thiagarajar School of Management in India, che in uno studio pubblicato sull’International Journal of Mental Health and Addiction hanno esaminato e studiato il fenomeno.