Inventing Anna: così Anna Delvey ha truffato e sovvertito il patriarcato
Di Chiara Cozzi
Inventing Anna, la serie Netflix che sta spopolando sulla piattaforma streaming e ispirata agli eventi di Anna Delvey/Anna Sorokin, non è solo la storia di una truffatrice. Per la precisione sarebbe più corretto dire che è la storia di una truffatrice che combatteva il patriarcato.
La giovanissima (finta) ereditiera tedesca ha voluto infatti inserirsi all’interno di un mondo spietato e selettivo, soprattutto se sei una donna straniera, giovane e senza un titolo di studio prestigioso. Anna Delvey diventa ancora più spietata e si impone, prendendo posizione con il proprio corpo e la propria mente, in un vero e proprio atto politico volto a sovvertire i codici patriarcali e maschilisti dell’alta società.
La serie creata da Shonda Rhimes si concentra anche sulla controparte di Anna: la giornalista Vivian Kent, a sua volta combattiva e determinata a eccellere nel campo del giornalismo. In un’inchiesta simile a quella portata avanti da Jerry Thompson in Quarto Potere, scoprendo varie versioni di Anna, e della sua storia, a seconda delle persone intervistate, Vivian (ispirata alla giornalista Jessica Pressler) scrive l’articolo che renderà davvero la socialite celebre in tutto il mondo. Il resto è storia, e serie tv – con i cui profitti/proventi Delvey/Sorokin ha potuto ripagare le spese delle truffe e legali.
Ma chi è Anna e perché tutti parlano (e parlavano) di lei?
Anna Delvey è una ricchissima ereditiera tedesca; Anna Sorokin, invece, è una ragazza russa emigrata in Germania, con la passione per la moda e che odia la povertà in cui la sua condizione di migrante l’ha costretta. Fin da adolescente Anna vuole imporsi in un mondo che le è negato in partenza, popolato da uomini che eccellono in ogni campo e in cui le donne hanno solo la funzione di contorno e accompagnamento. Delvey invece vuole essere protagonista: non perché bella o accompagnata a un uomo celebre, ma perché attiva in prima persona. Vuole creare il suo impero e dimostrare a chiunque che anche una ragazza immigrata e senza una laurea prestigiosa può farcela a diventare una persona di successo, che ha guadagnato ogni singolo centesimo che possiede – e che spende.
Anna dimostra fin da subito di essere lungimirante cogliendo una delle caratteristiche più importanti del capitalismo: essere un prodotto del patriarcato. Con la sua prepotenza e spietatezza, ma anche soprattutto grazie all’intuito e alle conoscenze, riesce a infiltrarsi negli ambienti capitalisti e a smontarli dall’interno. Gli uomini potenti sono al suo servizio, presenti esclusivamente per realizzare il suo sogno di imprenditrice; le donne invece restano al suo fianco, tutte professioniste del loro settore ed emancipate, economicamente indipendenti.
L’inaffidabilità di Anna non sta tanto nel fatto che nessuno sa chi sia davvero, quanto nella giovane età, nel modo di vestire e nell’accento straniero, campanelli d’allarme in una società in cui l’apparire e la perfezione sono tutto.La ragazza vuole a tutti i costi provare che i pregiudizi sul suo conto sono sbagliati e infondati, e per riuscirci asseconda la superficialità dell’alta borghesia newyorkese, come una moderna Elle Woods, la protagonista de La rivincita delle bionde, che per dimostrare di non essere solo una bionda fashion victim si iscrive a Harvard e si laurea in giurisprudenza.
Quando Anna riesce a raggiungere lo status a cui aspirava guadagna di rimando il rispetto altrui, dimostrandoci che non si era sbagliata sulla società; il fatto che poi sia stata smascherata non dimostra tanto il fatto che fosse una truffatrice, quanto l’ipocrisia di chi le gravitava attorno fintanto che dimostrava di essere una gallina dalle uova d’oro.
Stabilire chi è il vero villain della serie diventa difficile, e proprio perché Anna tenta questa azione sovversiva lo spettatore si trova a empatizzare con lei, ad ammirare quel talento che le ha permesso di prendersi gioco di un’élite intera. Anna si muove all’interno di essa come un’infiltrata, una talpa che installerà la bomba che farà saltare i meccanismi di finzione della New York di Wall Street.
Anna, con questo stratagemma, è riuscita a fare qualsiasi cosa da sola, tranne una: diventare famosa in tutto il mondo. A questo ci pensa la giornalista Vivian Kent, raccontando la sua impresa in un articolo che fa il giro del globo.
Il suo personaggio si mostra fin da subito interessato a raccontare le vicende femminili da un punto di vista interno e solidale, e non superficiale e disinteressato: si ribella infatti a quei datori di lavoro che vogliono assegnarle un pezzo volto a screditare le donne del movimento #MeToo.
Vivian non intende portarsi a casa la pagnotta infierendo su una minoranza già abbattuta, ma vuole fare qualcosa di più, che sia sorprendente per gli altri e che soprattutto la mostri come una professionista del settore. Impone le sue esigenze e la propria autonomia, ma soprattutto le sue capacità, le sue idee e il suo talento.
Le due donne protagoniste di questa serie sono le due facce di una stessa medaglia. Rappresentano entrambe la rivendicazione dell’autonomia e del successo femminili, mostrando in modi diversi che non esistono limiti alla volontà di una donna e alle sue capacità. Sia Anna che Vivian si trovano a sovvertire dall’interno un sistema fondato su capitale e testosterone, lottando per ergersi sulla montagna del privilegio e dimostrare che una donna, che sia immigrata o incinta, è in grado di fare qualsiasi cosa se gliene viene data la possibilità. Non una scalata alla ricchezza, dunque, ma alla propria affermazione individuale, dimostrando che il vero sesso debole è solo quello incline ai pregiudizi e a null’altro.