“Il futuro non può aspettare”: la voce di chi lascia l’Italia e poi (non) torna
Di Sofia Brizio
Cervelli in fuga. È così che i media hanno sempre definito gli italiani che decidono di costruire una vita all’estero. Mi ricordo tutti quei servizi che andavano in onda al telegiornale quando ero piccola e non sapevo che anch’io sarei diventata un cervello in fuga. Non pensavo che avrei mai potuto lasciare la mia famiglia, perciò ascoltavo quelle storie con reverenza; anche quando magari l’italiano all’estero era dipinto come un ‘fannullone’, per me restava una sorta di creatura mitologica da ammirare per le sue capacità di adattamento. Adesso che i numeri degli italiani all’estero sono in continuo aumento, e che io stessa sono una di loro, non riesco a non pensare all’immagine suggerita da Michela Grasso nel suo libro Il futuro non può aspettare (DeAgostini), di una moltitudine di piccoli cervelli che se la danno a gambe con tanto di valigia e cappello a cilindro.
Michela Grasso è la creatrice del famoso account Instagram @spaghettipolitics, nato per riflettere e fare informazione su ciò che accade nel mondo, ma soprattutto per spiegare la politica italiana agli stranieri che la seguono (spesso perplessi) da altri paesi. Vive all’estero da quasi cinque anni e, come me, non si è mai sentita adeguatamente ascoltata né rappresentata da un’Italia che di rado spende una buona parola per i giovani expat. Il suo libro è un resoconto onesto di cosa significa davvero vivere in altri paesi, ma anche di cosa significa restare in Italia. È un racconto di persone ed esperienze diverse, storie di fortuna e di sfortuna. Da expat, non potevo non leggerlo e sono contenta di averlo fatto. Dopo tanto tempo passato a cercare un libro che rispecchiasse ciò che in molti viviamo e pensiamo quotidianamente, l’ho finalmente trovato.
La vita all’estero è spesso e volentieri dipinta come un paradiso, e per certi aspetti lo è. Non dimenticherò mai i miei primi anni di studio nel Regno Unito, quando tutto era una scoperta. Adesso, dopo quasi sei anni posso dire che se si passa abbastanza tempo in qualsiasi luogo, si può arrivare a detestarlo quasi quanto il proprio Paese d’origine, ma ci vuole un po’ di equilibrio. Io stessa, quando racconto cosa mi succede all’estero, mi soffermo sulle esperienze meravigliose e su quelle terribili, senza mezzi termini. Inoltre, sicuramente i media non aiutano con la loro scarsa obiettività nel dipingere un mondo che sembra essere o tutto rosa e fiori o un inferno. Il libro di Michela Grasso è necessario per capire che non è affatto così, e che, come dice lei stessa, la vita all’estero è una terra promessa che dà molto ma toglie altrettanto. Partire non è mai una scelta facile.
Nel mio caso, è stata la necessità e il desiderio di vivere una vita piena a spingermi a trasferirmi nel Regno Unito, dove nella maggior parte dei casi, la vita quotidiana è a misura di persona disabile. Per questo mi ha colpito la testimonianza di Elena e Maria Chiara Paolini (@witty_wheels), due attiviste disabili che nel 2014 hanno vissuto a Londra per motivi di studio. In pochi sanno che lo stato italiano smette di sostenere economicamente le persone disabili che decidono di trasferirsi all’estero anche solo per un periodo limitato. Come spiega Maria Chiara nel libro, “È come se nella loro mente, l’idea di una persona disabile che viaggia fosse una cosa assurda, un capriccio che non merita supporto da parte dello stato.”
Ma trasferirsi all’estero è tutt’altro che un capriccio. È indiscutibilmente un privilegio, certo, ma risponde alla necessità di vivere una vita più serena soprattutto per chi fa parte di minoranze. Io, donna disabile, decido di stare lontana da casa per poter vivere e lavorare in autonomia, perché in Italia non posso farlo. È un’esperienza arricchente, ma è anche un sacrificio. Spesso mi chiedo se mi pentirò di aver scelto di stare in un altro Paese, lontana dalla famiglia, affrontando lutti senza poter essere vicina a chi mi vuole bene. Eppure non tornerei in Italia, in parte per le stesse ragioni che mi hanno spinta a trasferirmi e in parte perché quando si comincia a viaggiare, tornare è difficile. Il futuro non può aspettare affronta la questione identitaria del diventare italiano all’estero rendendola comprensibile anche a chi non la vive in prima persona e raccontando le storie di chi a tornare in Italia ci prova, come Mauro, che spiega: “Tornare in Italia è stato strano, ma era una cosa che desideravo tantissimo fare. Volevo riavvicinarmi a casa, e quando mi arrivò una proposta di lavoro da Milano accettai in fretta. Dopo qualche tempo, mi sono accorto che non era quello che volevo. Venivo da anni di lavoro in un contesto multiculturale e dinamico, mi ero abituato a essere l’italiano all’estero, un’identità che non mi dispiaceva.”
In Italia, in effetti, manca diversità in tutti i sensi: ricordo ancora con stupore quando un’amica inglese che avevo invitato per una breve vacanza mi fece notare che camminando per le strade della mia città non aveva visto neanche una persona che non fosse bianca. Mi chiese perché e io non seppi rispondere. Lo stesso vale per i club LGBTQ+, che in Italia hanno per fortuna cominciato a emergere recentemente, ma che nel Regno Unito sono ovunque da molti anni e sono stati una scoperta per me bellissima, così come vedere moltissime persone disabili come me passeggiare e fare la spesa. L’Italia ha gli strumenti per fare di più, ma finché la politica sarà dominata da persone che per età anagrafica tendono a non tener conto dei giovani, temo che non si andrà molto lontano. Questo senso di immobilità si percepisce anche nei media tradizionali, rendendo la mancanza di diversità un problema sociale e culturale, come spiega l’autrice:
A chi dice che i giovani devono restare in Italia per cambiare il sistema, rispondo di leggere il libro di Michela Grasso e riflettere non tanto su cosa potremmo fare noi expat, ma su cosa dovrebbe fare l’Italia per convincerci a tornare. Agli expat che vogliono sentirsi capiti, leggete questo libro e non sarete più soli.