Io, disabile, sono delusa dal Ministero per la Disabilità
Di Sofia Brizio
Lunedì 13 dicembre si è svolta la VI Conferenza Nazionale sulle Politiche della Disabilità, promossa dall’attuale Ministro per la disabilità Erika Stefani, con la partecipazione del Presidente del Consiglio Mario Draghi. È stata sicuramente un’iniziativa accolta con favore dai cittadini italiani, perché mostra una grande apertura al dialogo da parte delle istituzioni che forse fino ad ora mancava.
Ma il Ministero della Disabilità, introdotto quest’anno dal governo Draghi, ha suscitato non poche polemiche all’interno della comunità disabile. La critica principale è che il nuovo ministero non aggiunga niente a quello che già esiste e non viene sfruttato nel modo corretto, ossia il Ministero per le Pari Opportunità, nel quale dovrebbero rientrare anche questioni inerenti alla disabilità. Questo perché, come ho scritto in precedenza, l’accessibilità è un diritto trasversale e riguarda tutti, non solo i disabili. E allora il Ministero per la Disabilità finisce per essere, come ha espresso brillantemente Iacopo Melio, consigliere regionale del Pd in Toscana, “un modo paternalistico per ritenersi buoni e giusti, senza puntare a un arricchimento della società, bensì alimentando la cultura della carezzina sulla testa con sorrisi melensi”. La seconda critica che mi sembra giusto sollevare, e che è stata mossa anche in alcuni quotidiani nazionali, è che Erika Stefani non ha l’esperienza diretta che può derivare solo da una vita trascorsa a convivere con la disabilità, né alcuna esperienza nel terzo settore e associazionismo a supporto della disabilità. Né la ministra né i parlamentari che hanno partecipato alla creazione del Ministero della Disabilità e alla conferenza dello scorso lunedì hanno idea di cosa significhi non poter salire sui mezzi pubblici, non poter uscire di casa in autonomia o dover sopportare lungaggini burocratiche per rivendicare i propri diritti fondamentali.
Mi è stato spesso detto, da persone non disabili, che sono troppo critica di questo ministero, che non mi accontento mai di niente e, addirittura, che pretendere di sentirmi rappresentata da un ministro disabile è “discriminazione al contrario”, perché non importa che sia disabile, basta che il suo lavoro lo faccia bene. A beneficio di questi paladini del nuovo ministero, voglio partire dai lati positivi della conferenza (non sia mai che mi lamenti troppo).
In primo luogo, l’iniziativa è partita da una consultazione pubblica intitolata “Verso una piena inclusione delle persone con disabilità”, attraverso la piattaforma online ParteciPa. La consultazione, aperta dal 20 ottobre al 20 novembre, ha ricevuto 302 proposte da associazioni e singoli cittadini su temi quali accessibilità, inclusione lavorativa e vita indipendente.
Il report completo (consultabile online) è stato presentato alla conferenza del 13 dicembre, che ha visto una serie di interventi nel complesso positivi, come ad esempio quello della deputata di Italia Viva, Lisa Noja, che ha fatto notare come l’uso della parola ‘handicap’ sia ormai obsoleto e molte leggi (tra cui la legge 104) vadano quindi riscritte adottando un linguaggio più appropriato. Gradita anche l’osservazione della ministra Stefani sulla necessità di adeguarsi al modello biopsicosociale nel trattamento della disabilità e abbandonare quello medico-legale che ha finora prevalso in Italia. Ci stiamo arrivando con più di vent’anni di ritardo, ma forse ci stiamo arrivando. Forse. Infine, sono rimasta nel complesso piacevolmente sorpresa dall’intervento di Nazaro Pagano, presidente FAND, che ha fatto qualche accenno all’importanza dell’intersezione tra disabilità e questioni di genere. Ma è ancora troppo poco.
Io, disabile dalla nascita, emigrata in Gran Bretagna per curiosità personale ma anche per scappare da un’Italia che per molti aspetti mi ha negato un’adolescenza e una vita normale, sono arrabbiata e mi sento presa in giro. Mi sento presa in giro in primis da questo ministero, voluto da un partito politico che in passato si è dimostrato poco sensibile alle problematiche delle minoranze (ne è prova il recente affossamento del DDL Zan, che avrebbe protetto anche i disabili). Mi sento presa in giro dal presidente dell’INPS che ha parlato di grandi progetti per facilitare l’approccio alla valutazione della disabilità, quando appena lo scorso ottobre si è reso responsabile di tagli all’assegno di invalidità per chi ha un impiego che frutti anche solo una decina di euro al mese. Poco importa che il governo stia cercando di fare marcia indietro adesso: il messaggio che passa è che il sistema impedisce sistematicamente ai disabili di rendersi economicamente indipendenti. Il presidente ha poi concluso scusandosi per gli errori commessi e dicendo che l’INPS deve essere “gentile con i deboli e forte con i forti”. I disabili non sono deboli, o se lo sono è solo e soltanto per colpa delle barriere architettoniche, nient’altro.
Il mio lavoro di attivista, in Italia, consiste ancora nel ribadire tutti i giorni che “disabile” non è un insulto e che il vero insulto è insistere nell’usare eufemismi come “diversamente abili” quando ironicamente, nella realtà dei fatti, incontriamo ovunque barriere che ostacolano l’espressione delle nostre supposte “diverse abilità”. Forse accetterò un Ministero della Disabilità quando la gente smetterà di fissarmi per strada solo perché uso una carrozzina o un deambulatore, quando smetteranno di volermi aiutare anche quando dico che non la voglio, quando smetteranno di usarmi come metro di paragone per dire che, tutto sommato, loro che una disabilità non ce l’hanno non se la passano poi così male. Le buone intenzioni, nel 2021, non bastano più.
Prendiamo qualche esempio pratico dalle proposte emerse dalla consultazione: una delle principali in tema di accessibilità è l’introduzione dell’obbligo per i comuni di “destinare una parte degli oneri di urbanizzazione non inferiore al 10% all’abbattimento delle barriere architettoniche, come già previsto dalle Regioni Lombardia e Toscana”. Tutto molto bello, sulla carta, ma il mio scetticismo persiste perché io vivo proprio in Lombardia. In Lombardia mi è stato negato l’accesso ai mezzi pubblici per mancanza di rampe, o per non essere riuscita a prenotare l’assistenza su un treno con almeno 48 ore di anticipo. Quando ho chiesto una rampa nel condominio dove abitavo in centro a Bergamo, mi è stato detto che avrebbe rovinato l’estetica del palazzo, poco importava se per sfortuna mi fossi fatta male cadendo sul gradino d’ingresso troppo alto per me. In Lombardia non riesco ancora a entrare in un bar o in un negozio da sola perché quando chiedo se hanno una rampa, mi guardano come se avessi chiesto la luna. È questo l’abbattimento delle barriere architettoniche a cui i Comuni destinano fondi?
“Ma sarà solo la Lombardia!” direte voi. Va bene, prendiamo la Toscana. Vi risparmierò i racconti della mia gita scolastica a Firenze dopo la quale, a forza di essere sballottata sulla carrozzina per ciottoli e gradini, ho quasi vomitato il pranzo. Prendiamo un’esperienza più recente. La filosofa e attivista disabile Sofia Righetti a luglio di quest’anno è stata vittima di due episodi di discriminazione durante la sua visita prima al Giardino dei Tarocchi e poi a Cala Violina. I siti web di entrambi i luoghi forniscono informazioni incomplete o inesistenti in materia di accessibilità e anche la presunta “accessibilità parziale” del Giardino dei Tarocchi si è rivelata inadeguata, impedendo a Righetti di usufruire delle stesse opportunità degli altri turisti e godersi la propria vacanza in pace. Devono davvero continuare a capitare questi episodi perché le cose cambino? Perché dobbiamo essere noi disabili a sobbarcarci continue frustrazioni che ledono la nostra salute mentale e la nostra qualità della vita, quando in teoria non è richiesta una sensibilità particolare per capire che chi è in carrozzina le scale non le può fare?
Il punto è che se nemmeno i Comuni non sono in grado di gestire i fondi esigui destinati all’abbattimento delle barriere architettoniche, come prevede il governo di affrontare problemi enormi a livello nazionale come quello dell’assistenza domiciliare e i progetti di vita indipendente? Non sorprende che l’influencer disabile Cris Brave sia andato direttamente al Parlamento Europeo a Bruxelles per affrontare la questione dell’assistenza personale, dato che in Italia il sistema è lento e i fondi gestiti male. Ci tengo a sottolineare che molte delle proposte emerse durante la conferenza sulla carta sono buone, come ad esempio l’idea di “prevedere una ‘certificazione di accessibilità’ per gli enti pubblici e privati”, ma la mia fiducia è scarsa, visti i trascorsi. Se la conferenza serviva a dare certezze, a me non ne ha data nessuna. Forse, più che delle intenzioni, bisognerebbe preoccuparsi di snellire la burocrazia. Non serve a niente dire che si vuole migliorare l’accessibilità se poi per una rampa devo firmare dieci permessi e aspettare tre anni. Servono soluzioni semplici e immediate, non solo a parole. Infine, serve attenzione specifica per le persone con disabilità intellettive e relazionali che sono sempre state l’ultima ruota del carro e che con la pandemia si sono ritrovate ancora più isolate.
Come si è premurata di specificare la moderatrice della conferenza, “non siamo qui solo perché è quasi Natale e quindi siamo tutti più buoni”. Mi auguro che il governo, le amministrazioni e gli enti locali siano in grado di dimostrarlo, perché sono stanca di tornare a casa ogni anno e constatare che cambia poco o nulla. Siamo quasi a Natale e io la letterina non l’ho ancora scritta, quindi lo faccio adesso:
Caro Babbo Natale,
so di chiederti la stessa cosa tutti gli anni, ma io non mollo perché magari quest’anno è quello buono. Per favore, portami una rampa per andare a prendere un caffè, da sola, magari senza che la gente mi fissi. Ci conto.
Tua,
Sofia