Non c’è più tempo?
Di Elena Esposto
Se vuoi diventare un vero cercatore della verità, almeno una volta nella tua vita devi dubitare, il più profondamente possibile, di tutte le cose.
(René Descartes)
Dalla scienza ci aspettiamo sempre certezze, eppure niente si basa sul dubbio più del metodo scientifico. Sulla strada di una conclusione certa ci sono centinaia di ipotesi falsificate, cose credute vere che la raccolta di dati empirici hanno poi mostrato essere false.
Per il filosofo Karl Popper (fondamentale fu il suo contributo all’applicazione del metodo scientifico alle materie umanistiche) un’ipotesi o una teoria ha carattere scientifico soltanto quando è suscettibile di essere smentita dai fatti dell’esperienza. In base alla sua teoria della falsificabilità un’ipotesi scientifica viene considerata valida non grazie al numero delle conferme che riceve, per quanto in numero cospicuo, ma grazie a tutti i tentativi di falsificazione a cui riesce a reggere.
Insomma, una teoria è buona se non riusciamo a falsificarla e resterà tale fino a quando non ne sorgerà una nuova in grado di rimpiazzarla. Quello che Popper voleva dire è che il sapere scientifico non è mai definitivo ma che tende alla verità in modo lento e costante e sarebbe uno sbaglio considerare una certezza come tale.
La delusione delle certezze è qualcosa che abbiamo visto molto da vicino nel caso della pandemia da Covid-19, quando la comunità scientifica per prima si è trovata a brancolare nel buio. Purtroppo la maggior parte della conoscenza scientifica si costruisce sulle osservazioni e i dati empirici, e in mancanza di questi possiamo solo tirare a indovinare. Edward Deming disse una volta una frase che negli anni ho fatto diventare il mio mantra: “Senza i dati sei solo un’altra persona con un’opinione.”
In mancanza di dati e certezze (per quanto passibili di falsificazione) che cosa possiamo fare, dunque? Dobbiamo disperarci? Lasciarci andare alla deriva perché se neanche la scienza è in gradi di dirci qualcosa di certo allora tanto vale affidarsi ai dispensatori di fake news? No.
In un articolo sul modo di approcciare il tema del cambiamento climatico il fisico teorico Lawrence M. Krauss scrive: “Quantificare l’incertezza è sempre un aspetto cruciale della scienza. […] La cosa migliore è concentrarsi sulle conoscenze scientifiche consolidate, le cui incertezze possono essere quantificate.”
Non è un caso che Krauss abbia dedicato una riflessione di questo genere al clima, dal momento che è uno degli ambiti scientifici caratterizzati da un grandissimo grado di incertezza. Incertezza peggiorata e sfruttata dal dibattito politico che gira attorno al tema, spesso fuorviato da sbavature ideologiche ed emotive.
Lo abbiamo visto nelle settimane scorse, durante i negoziati della Conferenza sul clima (Cop26) conclusasi a Glasgow il 14 novembre, che hanno portato a un accordo frutto di un compromesso non abbastanza coraggioso.
Uno degli obiettivi definiti dalle parti era quello di ridurre a zero le emissioni nette di gas serra entro il 2050 e mantenere l’innalzamento delle temperature a +1,5°C rispetto ai livelli preindustriali. Non adempiere a questo proposito potrebbe portare a conseguenze disastrose. L’Intergovernamental Panel on Climate Change (IPCC) prevede un innalzamento pericoloso del livello del mare, il danneggiamento delle barriere coralline, ondate di calore, siccità, inondazioni, tempeste e via discorrendo.
Se questi sono i pronostici allora perché, come si chiede Andri Snær Magnason nell’illuminante saggio “Il tempo e l’acqua”, non è stato ancora dichiarato lo stato di emergenza globale? Perché alla Cop26 Cina e India l’hanno spuntata sulla formula “diminuire gradualmente l’utilizzo di combustibili fossili” invece che “eliminare gradualmente”? Perché continuiamo a prendere la macchina per fare mezzo chilometro, ad accendere riscaldamenti e impianti di condizionamento anche quando non servono? Perché i governi non investono di più sulle energie rinnovabili? Perché nessuno ci racconta i pericoli dell’acidificazione dei mari? Insomma, perché non abbiamo paura? Lo scenario dipinto dall’IPCC è peggiore di quello di molti film apocalittici, ma sembra che non ci preoccupi, perché?
Una prima possibile ragione sta proprio in quel potrebbe, al condizionale, che ho usato sopra. Nessuno di noi lo sa con certezza e questo provoca una sorta di fatalismo che ricorda molto l’atteggiamento di chi non si decide a smettere di fumare. Non tutti i fumatori sviluppano un cancro ai polmoni, questo è vero, ma va anche detto che è tardi smettere di fumare una volta che il cancro lo hai già.
Se per convertire la nostra economia (o almeno iniziare a farlo) aspettiamo che i ghiacciai si siano sciolti, il pH del mare si sia abbassato irrimediabilmente e la deforestazione si sia conclusa perché tutte queste cose potevano anche non succedere, a quel punto dismettere i combustibili fossili sarà l’ultimo dei nostri problemi.
Come scrive Krauss: “Bisogna distinguere tra l’ammissione che c’è un tipo di incertezza che ogni scienza deve affrontare (compresa quella sul clima) e l’eccessivo scetticismo creato ad arte, che favorisce la paralisi convincendoci che non sappiamo assolutamente nulla. […]”.
Nel caso del clima l’incertezza è dovuta principalmente alla scarsità di dati storici. Per fare buone previsioni, infatti, servono modelli complessi che vanno nutriti con grandi quantità di dati (possibilmente anche di buona qualità). L’acquisizione di dati nuovi da inserire nel modello fa aggiornare i risultati, motivo per il quale le previsioni possono cambiare anche drasticamente.
Questo però non ci autorizza a mandare tutto alle ortiche e decidere di non agire. Scrive sempre Krauss: “L’inevitabile incertezza della scienza climatica non mette in discussione le previsioni basate su conoscenze certe. […] Ignorare le verità scientifiche consolidate a causa delle incertezze sulle ultime scoperte è come pensare che visti i dubbi sulla gravità quantistica ci si può gettare dal settimo piano perché si potrebbe anche cadere verso l’alto invece che verso il basso.”
Una seconda ragione è spiegata invece molto bene nel saggio che ho citato prima e fa capo a un problema più puramente linguistico. Quando sentiamo parlare dei cambiamenti climatici non ci spaventiamo come dovremmo perché non capiamo quello che ascoltiamo, perché non ci sono chiare le unità di misura e la portata di quello che potrà succedere. In “Il tempo e l’acqua” Magnason porta l’esempio molto significativo della scala di misurazione dell’acidità del mare. Lo riporto integralmente.
“Il pH è una scala logaritmica, mentre noi siamo abituati a pensare utilizzando scale lineari: chilometri, grammi, anni, gradi di temperatura. Sono ambiti, questi, in cui la scala logaritmica, in cui ogni unità rappresenta un aumento alla decima potenza, non ci è utile. Se il latte venisse misurato su una scala logaritmica, che chiameremo Muuu, un litro di latte equivarrebbe a un Muuu, ma dieci litri di latte sarebbero due Muuu e cento litri tre Muuu. Con questa scala potremmo facilmente sbagliarci e comprare tre Muuu di latte (cento litri) anziché 1,3 Muuu (due litri). La scala logaritmica funziona bene per chi ha un cervello matematico, ma per la gente comune è decisamente poco pratica.
Quando il mondo scientifico ci mette in guardia sui cambiamenti dei livelli di acidità degli oceani, un passaggio del pH da 8,1 a 7,8 non ci sembra granché: 0,3 è un valore irrisorio, se applicato alle valute, alle percentuali, ai metri, agli anni; nemmeno in milioni di dollari è una cifra enorme. Lo 0,3 può corrispondere a un accettabilissimo margine di errore di qualsiasi nostra misurazione. Un bambino con una temperatura dello 0,3 in più rispetto alla norma lo mandiamo a scuola lo stesso, un arrotondamento dello 0,3 è quasi niente. In una questione fondamentale come quella del riscaldamento globale, utilizzare una scala logaritmica è un po’ come utilizzare una lingua senza aggettivi. Il sangue umano, per esempio, tollera oscillazioni comprese tra pH 7,35 e pH 7,45. Al limite superiore e a quello inferiore di questo intervallo ci si ammala gravemente. Se poi il valore del pH del sangue esce da questi parametri, con ogni probabilità gli organi vitali cedono portando alla morte. Per molte specie animali, il livello di acidità degli oceani ha la stessa importanza che ha per noi il livello di acidità del sangue. Anzi, il cambiamento rappresentato da questo innalzamento del pH di 0,3 unità è tanto importante che gli aggettivi avrebbero bisogno di maiuscole, grassetti e una ventina di emoji. Lo 0,3 è un altro buco nero”.
Per poter ottenere dei risultati efficaci e che vedono coinvolti tutti sul fronte della lotta ai cambiamenti climatici servono dunque sforzi congiunti della società civile e della comunità scientifica.
Da un lato la società e il mondo politico devono imparare a prendere sul serio i campanelli di allarme fatti suonare dalla scienza. Forse il mondo non finirà tra dodici anni e non siamo ancora hobbit in equilibrio su un baratro infuocato, ma il baratro da qualche parte nel futuro si prospetta e se non siamo certi di come né quando arriverà possiamo star certi che quella che abbiamo imboccato è la strada per il Monte Fato.
Dall’altro lato la comunità scientifica dovrebbe veicolare i messaggi in modo che siano il più chiari possibile e che non lascino spazio a più incertezza di quella fisiologica.
Questa comunque non è una scusa per non cercare di comprendere anche autonomamente quanto più possibile e a fondo. Il saggio di Magnason ad esempio è un ottimo punto di partenza e cita moltissime fonti per continuare ad approfondire l’argomento.
Viviamo nell’ età dell’informazione e abbiamo tutti gli strumenti necessari per uscire dall’oscurità e approdare alla luce della conoscenza, per quanto incerta e imperfetta possa essere.