L’evoluzione dell’attivismo: il digitale come il mezzo più inclusivo di lotta
Di Beatrice Scalella
Nei secoli passati – con una particolare attenzione al Novecento per le manifestazioni e gli scioperi – la mobilitazione, la lotta e l’ottenimento di ascolto, diritti e inclusione sono sempre passati dalla piazza e dall’assemblea. L’attivismo – che, dalla parola stessa, presuppone azione, protesta e volontà di cambiamento – si sviluppa soprattutto nella seconda metà del Novecento, quando le minoranze iniziano a unirsi e a combattere contro le discriminazioni quotidiane e secolari a cui sono sempre state abituate.
Si sono avute le varie ondate femministe (che hanno lottato per diritti come il voto, l’aborto, il divorzio e contro questioni culturali e sociali come la sessualità, la famiglia, la violenza), i movimenti studenteschi, la disobbedienza civile, i Pride della comunità LGBTQIA+, gli scioperi dei sindacati. La piazza è sempre stata il simbolo della rivoluzione, ma per secoli ha anche escluso – e continua a escludere – una fetta importante della popolazione.
Con lo sviluppo sempre più ampio della comunicazione digitale ha iniziato a unirsi alla piazza fisica la presenza online: soprattutto grazie ai social media, milioni di persone possono condividere la propria opinione, e proporre e attuare un cambiamento senza spostarsi o agire fisicamente in strada.
Se per molte persone questo dà meno valore alla lotta è perché l’attivismo si è sempre impregnato di una visione abilista e sanista: le manifestazioni e gli scioperi – in realtà – hanno sempre escluso delle persone che, pur condividendo gli ideali e la rabbia dei collettivi, non potevano partecipare per varie motivazioni. Chi ha disabilità fisiche e intellettive, situazioni mentali invalidanti (ansia, fobia sociale e depressione sono alcuni esempi), vive lontano dai luoghi in cui le assemblee avvengono e non ne hanno accesso per motivi economici, infrastrutturali e quant’altro, perché dovrebbe essere consideratə attivista di serie B?
Le spaccature e le incoerenze esistono ormai per ogni gruppo di persone che si riunisce in nome della costruzione di una visione comune, ma se anche all’interno di collettivi che si dichiarano intersezionali e inclusivi avviene una divisione – anche rimarcata – tra chi può e chi non può, allora qual è il punto? Se, come prima cosa, non si è capaci di riconoscere quali sono i privilegi, come può avvenire la lotta contro di essi?
La piazza resta un movimento fondamentale e importante del cambiamento strutturale e sociale, ma nel nuovo millennio si deve imparare a riconoscere il digitale come mezzo di eguale valore, non solo perché esso rappresenta l’unico modo di fare attivismo di alcune persone, ma anche perché la dicotomia tra online e offline non esiste così marcatamente come si pensa.
Spesso i social media, i blog e le app sono l’unico modo di interazione sociale e ludica di alcune persone, e svalutare il mondo online per una sedicente “vita vera” al di fuori significa svalutare alcuni soggetti la cui “vita vera” è esattamente quella.
Le criticità rimangono anche per il cosiddetto “attivismo digitale” in quanto è escludente per chi non ha una connessione internet o dei mezzi tecnologici adeguati, ma per ora risulta comunque essere il mezzo più inclusivo di tutte le soggettività, che qui trovano lo spazio in cui parlare e la community dove poter condividere. Così come nella piazza, gli scontri e la violenza sono aspetti possibili e frequenti che fanno parte di un problema strutturale e culturale che si cerca di cambiare, e possono portare a paure e preoccupazioni che allontanano dall’attivismo e dal dire e condividere un’opinione. Ciò che si deve imparare è che bisogna riconoscere il proprio privilegio se si vuole parlare di accessibilità ed equità, altrimenti tutto ciò che si dice può essere importante ma comunque escludente, e non ci devono più essere persone che rimangono fuori.