Perché le nazioni che opprimono le donne falliscono?
Di Elena Esposto
Il numero del The Economist di tre settimane fa riportava un articolo dal titolo molto intrigante: “Why nations that fail women fail”, ovvero perché le nazioni che opprimono le donne falliscono.
Il titolo è stato preso da un interessantissimo saggio di Daron Acemoglu e James Robinson “Perché le nazioni falliscono. Le origini di potenza, prosperità e povertà”, dove i due economisti analizzano le cause storiche e sociali che hanno portato alcuni stati a diventare democrazie fiorenti dal punto di vista economico e altri invece no.
Il The economist si è spinto un passo oltre, recuperando alcune analisi che vedrebbero intimamente correlati i livelli di instabilità economica e politica di un Paese e il suo approccio verso le donne.
L’articolo prende il via dalle recenti vicende afghane e si basa su uno studio di Valerie Hudson della Texas A&M University e Donna Lee Bowen e Perpetua Lynne Nielsen della Brigham Young University.
Secondo le ricercatrici le società che opprimono le donne tendono ad essere in proporzione più violente e instabili. Questa oppressione si declina in diversi modi che vanno dall’aborto selettivo delle femmine, ai matrimoni precoci fino alla poligamia, ma hanno un unico outcome: il surplus di maschi. E, a quanto pare, giovani maschi frustrati hanno più probabilità di commettere crimini violenti e unirsi a gruppi ribelli e di insorgenti che promettono stuoli di donne in questa o nell’altra vita (come ben ricorderete uno degli incentivi che l’ISIS offriva per l’arruolamento era la possibilità di avere delle schiave sessuali).
Della fragilità delle teoria di Hudson e più in generale di tutte le altre teorie delle “blue balls” avevamo già parlato qui. Attribuire tutta la colpa della violenza e dell’instabilità di uno Stato all’eccesso di testosterone che I giovani maschi non possono sfogare attraverso l’attività sessuale e invocare a balsamo sociale e politico il matrimonio e la sessualizzazione delle donne è quantomeno ridicolo.
Del resto basta guardare i livelli di crimini e di violenza nei Paesi Latinoamericani dove, seppure in una forte cornice patriarcale, si vive in una sostanziale situazione di libertà sessuale. Una libertà che non impedisce però a Stati come il Venezuela, la Colombia e il Messico di venire inseriti nel Global Pace Index fra gli stati più pericolosi al mondo. Nel 2021 le tre città più violente al mondo sono risultate Tijuana, Acapulco e Caracas. Insomma, vi viene in mente un posto meno moralista di Tijuana?
Forse è il caso di cambiare un poco la prospettiva, de-zoomare dal mero problema della poca disponibilità di femmine per soddisfare puri bisogni biologici e concentrarci su un altro punto. Dove sono le donne? Donne intese come individui a trecentossessanta gradi, dal punto di vista sociale, familiare, economico e politico?
Quando le donne vengono date in spose a tredici anni, sono abortite ancora nel ventre delle madri, rinchiuse in casa in matrimoni magari poligamici, senza assistenza, costrette a crescere figli nell’indigenza, vendute dalle famiglie in cambio di soldi o scambiate per creare alleanze tribali che cosa succede? La risposta è semplice: spariscono dalla società. E cosa succede quando le donne scompaiono dalla società? Beh, succedono un sacco di cose, e poche di esse giovano alla collettività.
Abbiamo un primo fattore di tipo economico. Sembra strano doverlo ribadire in continuazione ma le donne costituiscono il 50% della popolazione mondiale. E se metà della popolazione, per i più svariati motivi, è esclusa dal mercato del lavoro, vuol dire che metà delle risorse vengono sprecate.
E non illudiamoci che siccome l’articolo del The Economist parlava dell’Afghanistan questo problema non ci riguardi. Per escludere una donna dal mercato del lavoro non serve una legge religiosa che impedisca alle donne di lavorare. Come ci ha spiegato molto bene Azzurra Rinaldi in questa intervista, solo a livello europeo il gender gap costa ogni anno 370 miliardi di euro.
In altri Paesi poi il lavoro femminile gioca un ruolo addirittura fondamentale, e venendo a mancare manderebbe in crisi l’economia nazionale. Secondo l’economista svedese Kristine Marcal, ad esempio, le rimesse delle donne migranti rappresentano ben il 10% del PIL delle Filippine.
L’esclusione delle donne dalla sfera economica non ha un impatto solo a livello di produttività, ma anche nella gestione delle risorse finanziarie. Sempre Marcal, nel suo brillante saggio Who cooked Adam Smith’s dinner?, racconta che nel 2010 Christine Lagarde, allora Ministra delle Finanze della Repubblica Francese, disse che se la Lehman Brothers fosse stata Lehman Sisters la crisi finanziaria sarebbe andata diversamente. Forse non era del tutto seria, ma sta di fatto che l’unico fondo uscito illeso dal 2008 fu l’Audur Capital, una società di investimento islandese gestita esclusivamente da donne.
C’è poi un fattore politico, che fa il paio con quello economico-finanziario. Studi hanno dimostrato che gli alti livelli di testosterone portano gli uomini a prendere decisioni meno ponderate e a essere più proni al rischio, in economia come in politica. Ad esempio, quello che si vede nelle negoziazioni dei processi di pace è che gli accordi durano di più se vengono coinvolte anche le donne nei colloqui.
Il Council of Foreign Relation ha messo in luce come le donne abbiano dato contributi importanti per la prevenzione e la risoluzione dei conflitti e per aumentare la stabilità, grazie a un approccio collaborativo durante i colloqui di pace e alla capacità di lavorare superando le divisioni culturali e settarie. Portare le donne ai tavoli delle trattative aumenta inoltre le possibilità di raggiungere un accordo, perché sono viste come negoziatrici più affidabili e super partes. Nonostante le evidenze portate anche da conflitti recenti come quelli irlandese, quello liberiano o quello guatemalteco, secondo l’Onu tra il 1992 e il 2019 le donne hanno costituito solo il 13% dei negoziatori dei processi di pace, il 6% dei mediatori e il 6% dei firmatari. Nell’attuale situazione afgana solo il 10% degli attori coinvolti nel processo di pace sono donne, il 15% in Sudan, il 28% in Siria, il 22% in Myanmar e il 4% in Yemen.
L’ultimo fattore è poi quello sociale. Donne oppresse ed escluse dalla società sono spesso anche donne povere che non hanno accesso all’istruzione e alla scuola. Secondo l’UNICEF nel mondo ci sono 129 milioni di bambine e ragazze fuori dal sistema scolastico.
Investire nell’educazione delle donne significa non solo permettere loro di entrare a pieno titolo nel mondo del lavoro e far aumentare il PIL, ma significa anche far scendere i livelli di natalità e quelli di mortalità infantile. Una donna istruita avrà più probabilità di crescere dei figli sani e di mandarli a loro volta a scuola e avrà più risorse per uscire da eventuali situazioni violente e abusive.
Quindi, per tornare all’inizio del nostro discorso sì, è vero che gli stati che opprimono le donne hanno più probabilità di fallire dal punto di vista sociale, economico e politico, ma questo non è certo una mera conseguenza del fatto che con le donne fuori gioco ci sono troppi giovani maschi frustrati dai presunti testicoli congestionati pronti a mettere a ferro e fuoco il Paese (tra le altre cose l’articolo del The Economist glissa totalmente sul ruolo e gli interessi degli Stati esteri su certi conflitti, e preferisce concentrarsi sull’importanza degli aiuti e degli interventi militari, ma questo è tutto un altro discorso che qui non possiamo approfondire).
Il problema, guarda caso, sono le dinamiche patriarcali che escludono le donne dalle sfere salienti del vivere sociale, sprecando risorse importanti in tutti gli ambiti. Come disse qualcuno, “quando vado in ospedale vorrei essere curata dal medicƏ migliore di tuttƏ, non dal migliore del 50%”. Ancora oggi, in molti Paesi e contesti, è impossibile individuare la persona migliore per un determinato incarico perché metà della popolazione è esclusa a priori dalle selezioni.
L’epidemia di Covid 19 ha mostrato nel modo più chiaro possibile che la nostra società e il nostro pianeta stanno andando verso sfide sempre più grandi e difficili, sfide sanitarie, sociali, politiche, economiche e ambientali. Se non vogliamo farlo per una questione di giustizia e uguaglianza almeno facciamolo per amore di efficienza, ma è davvero giunto il momento di chiederci se vogliamo lasciare la gestione di quello che ci aspetta a solo metà della popolazione, e forse neanche la metà più adatta.