Donne spezzate, donne a metà?
Di Elena Esposto
Imparerai a tue spese che nel lungo tragitto della vita incontrerai tante maschere e pochi volti
L. Pirandello
OgnunƏ di noi, ogni giorno, ogni momento assolve a determinati ruoli sociali. Siamo amicƏ, figlƏ, sorelle e fratelli, colleghƏ di lavoro, capƏ, sottopostƏ, genitori, membri della parrocchia e del club di calcio. Poi però torniamo a casa e nel silenzio delle nostre quattro pareti cerchiamo di essere solo noi stessƏ, ammesso che un’identità unitaria esista sotto questa pluralità di ruoli.
Tra le “maschere” sociali che indossiamo ogni giorno ce ne sono però alcune che hanno un impatto più forte sull’identità del soggetto, sia a livello personale che a livello sociale. Tra queste, la più potente è sicuramente quella della maternità.
Proprio la settimana scorsa, su uno dei nostri social, un utente ha commentato la biografia di Maria Montessori sottolineando il fatto che pur essendosi prodigata per molti bambini si era macchiata della colpa di aver abbandonato il suo proprio figlio, Mario, fatto nascere in segreto e poi dato in affido poiché all’epoca, essendo la Montessori nubile, assumersi pubblicamente la maternità del bambino avrebbe significato sollevare uno scandalo.
Potremmo a questo punto chiederci se la vera colpa non ricadesse piuttosto su di una società che obbligava una giovane donna a scegliere dolorosamente tra suo figlio e uno scandalo, ma preferisco concentrarmi invece su come ci sentiamo sempre in diritto di giudicare le scelte delle donne in materia di maternità e figli.
Siamo abituatƏ a considerare la maternità qualcosa di assolutamente normale, un passo necessario e inevitabile nella vita di ogni donna, qualcosa che capita insomma.
E quando poi davvero ti capita, magari senza che fosse pianificata o voluta, ecco che te la devi cuccare, come un castigo, una colpa da espiare, qualcosa che “ti sei cercata” e che ora devi subire, in barba al tuo diritto di abortire o dare il bambino in affido. Se invece i figli preferisci non farli per niente anche in quel caso non verrai risparmiatƏ. E vai di fertility day, blog sulle gioie della maternità e “tu che sei madre non puoi capire”, come se partorire idee, progetti, rivoluzioni o opere d’arte fosse meno dignitoso e appagante che partorire esseri di carne e sangue. Come se, mancando questo ultimo pezzo, si rimanesse donne solo a metà.
In questa santificazione e assolutizzazione del ruolo materno ci dimentichiamo quello che la sociologa israeliana Orna Donath scrive nell’introduzione del saggio Pentirsi di essere madri:
La maternità può essere piena di tensioni e ambivalenza che possono creare impotenza, frustrazione, senso di colpa, vergogna, ostilità e delusione. Sappiamo già che la maternità può diminuire il campo d’azione di una donna e il suo livello di indipendenza. E abbiamo appena iniziato a capire che le donne sono esseri umani […], ma vogliamo ancora con tutte le forze che la nostra immagine mitica della “Madre” rimanga intatta, nonostante l’esperienza di carne e sangue.
Insomma ci dimentichiamo che essere donne non vuol dire automaticamente essere madri in potenza, ma che il processo che porta alla assunzione della maternità è appunto un processo, che richiede fatica, che non è uguale per tutte le donne e che soprattutto può non portare necessariamente ad una perfetta coincidenza dei lembi delle due identità donna-madre.
Per tornare alla vicenda di Maria Montessori un’altra donna e intellettuale italiana costretta dalle vicissitudini a scegliere tra suo figlio e la possibilità di vivere una vita secondo le proprie aspirazioni è Sibilla Aleramo, che in Una donna spiega in modo perfetto questa scissione identitaria:
In me la madre non s’integrava nella donna: e le gioie e le pene purissime in essenza che mi venivano da quella cosa palpitante e rosea, contrastavano con un’instabilità, un’alterazione di languori e di esaltamenti, di desiderii e di sconforti, di cui non conoscevo l’origine e che mi facevano giudicare da me stessa un essere squilibrato e incompleto.
E ancora: “Perché nella maternità adoriamo il sacrifizio? Donde è scesa a noi questa umana idea dell’immolazione materna? Di madre in figlia, da secoli si tramanda il servaggio. È una mostruosa catena. […] Se una buona volta la fatale catena si spezzasse, e una madre non sopprimesse in sé la donna?”
Questa catena della quale parla Aleramo, questa sovrapposizione quasi perfetta tra la donna e la madre ha origini antiche e le sue radici affondano direttamente nella nostra storia culturale, tradizionale e religiosa.
Nel racconto della Genesi Adamo ed Eva vengono cacciati dal paradiso terrestre perché hanno disubbidito a Dio e hanno mangiato il frutto dall’albero proibito. Ma mentre per l’uomo la punizione consiste nel dover lavorare duramente per guadagnarsi il cibo per la donna la sentenza è terribile: “Moltiplicherò i tuoi dolori e le tue gravidanze, con dolore partorirai figli. Verso tuo marito sarà il tuo istinto, ma egli ti dominerà” (Gen 3,16). Come scrive Michela Murgia in Ave Mary:
Partorire, ma soprattutto partorire nel dolore, diventa quindi per il genere femminile la condizione per stare dentro il discorso cristiano, secondo il quale la donna che per qualche ragione non avesse portato a compimento la sua missione procreatrice sarebbe divenuta un non senso teologico, perché l’assenza dell’atto generativo le avrebbe tolto la sola contropartita morale che il Creatore aveva stabilito per lei nell’economia delle cose umane. Chi non avesse partorito si sarebbe cioè sottratta alla punizione, conseguenza naturale della caduta, e avrebbe vissuto sulla terra come una specie di latitante.
Il ruolo delle donne nella società come procreatrici, unito agli altri ruoli di cura e servizio, è stata per secoli propugnata dalla Chiesa e più volte ribadita dai vari papi. Esempio eclatante è quello dell’enciclica Mulieris Dignitatem, di Papa Giovanni Paolo II, che già dal titolo (La dignità della donna) è tutta un programma.
Scrive sempre Murgia: “La Mulieris Dignitatem resta una delle più radicali conferme della funzionalità femminile che siano mai state rese esplicite nel magistero di un papa. L’enfasi sulla peculiarità del femminile servì a riconfermare la subordinazione sociale e familiare della donna, non più enunciata in nome di un’inferiorità di genere, ma fondata su una pretesa superiorità di ruolo spirituale”.
Sarebbe sciocco e ottimista pensare che secoli di pensiero e dottrina cattolica non abbiano avuto un impatto decisivo sulla nostra società (tra l’altro il libro di Murgia esplora molti altri aspetti al di fuori della maternità) ed è quindi facile dedurre come questa dualità donna-madre sia difficile da scindere e spezzare.
Se alcune donne si sono liberate dall’imperativo della maternità, nel discorso dominante la “non-madre” rimane ancora, per usare le parole di Murgia, una latitante, un non senso non più solo teologico ma anche sociale. Questa dinamica può avere diversi effetti sulle donne. Orna Donath, nel saggio già citato sopra, ne esplora alcuni molto interessanti prendendo come punto di partenza le donne che si sono ritrovate madri a causa di pressioni sociali, e non in seguito ad un’attenta analisi dei propri desideri e bisogni. La maternità imposta può portare a senso di inadeguatezza, sensi di colpa, scissione dell’identità fino al vero e proprio rifiuto dei figli, che può talvolta sfociare in atti violenti.
Un altro possibile epilogo è quello dell’annullamento della donna dietro la madre. Si chiedeva ancora Aleramo: “Perché avevo pensato tanto naturalmente alla morte quando mio figlio era in pericolo? Non esistevo io dunque indipendentemente da lui, non avevo, oltre al dovere di allevarlo, oltre alla gioia di assisterlo, doveri miei altrettanto imperiosi?”.
Parafrasando potremmo chiederci che cosa resta della donna una volta che, per prendere in prestito una metafora pirandelliana, la maschera della madre si è dissolta?
Una volta che i figli sono cresciuti, che se ne sono andati, che non necessitano più delle cure materne? Quante volte mi è capitato di sentire donne con figli adulti dire che ora dovevano “ricominciare da zero”, “reinventarsi la vita”! Ma quella vita dov’era stata fino a quel momento? A esclusivo uso e consumo dei figli? E dunque cosa c’è dietro la maschera?
Questa è la domanda cui sembra voler rispondere Simone de Beauvoire in Una donna spezzata, una raccolta di tre racconti che narrano la storia di donne alle prese con lo sgretolamento delle loro famiglie, figlƏ cresciutƏ, che si sono allontanatƏ o che sono mortƏ. Donne che all’improvviso si trovano a non essere più madri (e in alcuni casi neanche mogli) e sono costrette ad affrontare il vuoto incolmabile di senso e di identità.
Alla fine del primo racconto la protagonista, Monique, scrive:
Una porta chiusa; dietro, qualcosa ci aspetta al varco. Non si aprirà, se io non mi muovo. Non muoversi; mai più. Fermare il tempo e la vita. Ma so che mi muoverò. La porta si aprirà lentamente, e vedrò che cosa c’è dietro. C’è l’avvenire. La porta dell’avvenire sta per aprirsi. Lentamente. Implacabilmente. Io sono sulla soglia. C’è soltanto questa porta e ciò che v’è nascosto dietro. Ho paura. E non posso chiamar nessuno in aiuto. Ho paura.
Una porta che si spalanca sull’avvenire può essere un’opportunità ma anche, come qui, fonte di grande angoscia. Probabilmente per una madre è inevitabile soffrire al momento del distacco con il figlio, ma se la maternità fosse meno totalizzante, se per usare le parole di Aleramo le donne potessero liberamente attendere, oltre che a quelli dei figli, ai loro propri doveri imperiosi il venir meno della maschera della madre non porterebbe con sé lo sgretolamento della donna.