Lo scarico di responsabilità delle buone intenzioni
Elisa Belotti
Nelle scorse settimane la televisione italiana ha visto molti episodi, in cui l’uso del linguaggio è risultato offensivo per una o più comunità. I numerosi esempi sono stati messi in luce dal collettivo D.E.I. Futuro Antirazzista, tra i sostenitori della campagna #cambieRAI per l’eliminazione del linguaggio razzista, sessista, abilista e omolesbobitransfobico dalla televisione. L’ormai virale monologo del duo comico Pio D’Antini e Amedeo Grieco durante il programma “Felicissima sera” è stato solo la punta di questo iceberg. Sono tanti gli aspetti problematici del discorso andato in onda, ma ce n’è uno in particolare su cui vale la pena soffermarsi perché centrale. I comici Pio e Amedeo esprimono affermazioni discriminatorie e lo fanno con la convinzione che «non sono le parole, sono le intenzioni» che contano. È vero?
Basta avere buone intenzioni?
Secondo questa prospettiva una frase o un’azione che si basa su buone intenzioni di partenza è buona in toto, anche se l’effetto che provoca è negativo. Si tratta però di un enorme scarico di responsabilità. Significa spostare il peso dell’azione dall’individuo o dal gruppo che la compie a chi ne subisce gli effetti senza averla richiesta. In questo caso, ad esempio, usare la n-word, la f-word e via dicendo, sostenendo che lo si fa senza cattive intenzioni, scarica le conseguenze sulla platea che ascolta il programma in diretta e lo riprende online. In più, dando la televisione una visibilità molto ampia, un tale messaggio diventa capillare e autorizza comportamenti simili senza discuterli a pieno e mostrarne le problematiche. Dopo il monologo di Pio D’Antini e Amedeo Grieco, infatti, sono state molte le testimonianze di persone appartenenti alle comunità coinvolte, che hanno riportato gli ennesimi episodi discriminatori.
Sfatiamo un altro mito: l’assenza di cattive intenzioni non implica che esse siano buone. Non voler ferire una comunità o un individuo non basta per agire nei suoi confronti con rispetto. Avere buone intenzioni e comportarsi in modo corretto verso un altro essere umano, chiunque sia, implica invece rispettarne l’identità, ascoltare la sua voce ed evitare termini e atteggiamenti che possono ferirlo. Questo discorso va posto al centro dell’attenzione soprattutto quando si parla di discriminazioni, un fenomeno che colpisce le persone non sulla base di ciò che fanno, ma di chi sono (nere, ebree, musulmane, disabili, donne, gay, etc.).
In aggiunta, il monologo più volte sostiene che davanti a un termine denigratorio bisogna «farsi una risata». Sostenendo ciò si adotta però una prospettiva di supponenza in cui, dall’esterno, si spiega ai membri di una comunità come dovrebbero agire e reagire. Questo comportamento si chiama splaining, termine inglese che deriva dal gerundio del verbo explain, spiegare, perché chi lo mette in atto spiega, appunto, una prospettiva a chi già la adotta ma viene ritenuto incapace di avere una visione complessiva. Pio D’Antini e Amedeo Grieco fanno whitesplaining, chiarendo alle persone nere come reagire davanti alla n-word, straightsplaining, mostrando alle persone della comunità LGBTQ+ come comportarsi in caso di f-word, mansplaining, illustrando alle donne come reagire ai commenti maschili, e via dicendo. Questo atteggiamento è problematico perché, oltre a mancare di rispetto alla comunità coinvolta che non viene ascoltata, comporta una reiterazione di un unico punto di vista e diffonde una visione semplicistica e priva di complessità.
Di conseguenza, quando si prende la parola, bisogna sempre chiedersi se ciò che si sta per dire potrà essere offensivo e, in caso affermativo, modificare i termini da usare. Questo vale anche in un contesto comico o ironico, perché la battuta non giustifica l’insulto e, soprattutto, l’umorismo non dovrebbe svolgersi ai danni delle comunità marginalizzate e non per via del politicamente corretto, ma perché si tratta di abuso del proprio privilegio. Pio e Amedeo, così come nelle scorse settimane Michelle Hunziker e Gerry Scotti o Valeria Fabrizi, hanno occupato quella posizione perché dotati di un prestigio maggiore rispetto alle comunità marginalizzate di cui hanno parlato. Incitare a comportamenti discriminatori con la scusa della comicità è stato possibile proprio per il loro privilegio, ma ciò non significa che sia giusto. Inoltre durante lo sketch hanno parlato di autoironia, dimenticando che essa viene fatta da un gruppo su se stesso, non da un altro.
Esiste la dittatura del politicamente corretto?
«Non si può più dire niente!» è una delle esclamazioni più pronunciate in questo periodo e richiama proprio la cosiddetta dittatura del politicamente corretto. La domanda fondamentale, per comprendere questo fenomeno in profondità e senza preconcetti, è: «Esiste davvero?».
Fabrizio Acanfora, divulgatore e autore di In altre parole, pubblicato da Effequ e presentato dalle Donne della porta accanto alcune settimane fa, dedica a ciò un intero capitolo. “Politicamente corretto” è un’espressione che ha cambiato fortemente il suo significato nel corso del tempo, «passando da essere la descrizione di parole e pensieri in linea con una determinata ideologia politica a una modalità di censura che presumibilmente attuerebbe una parte politica a spese della democrazia e della libertà» scrive Acanfora. Verso la fine del Settecento, infatti, indica l’esattezza dal punto di vista politico di idee o parole. Attorno agli anni ’20 del Novecento, però, il suo significato inizia a cambiare perché la dottrina comunista lo associa all’aderenza al partito.
Non ha ancora una sfumatura spregiativa, quella arriva negli anni ’40, indicando uniformità acritica alla linea del partito comunista e diventa quindi un modo per canzonare un’eccessiva ortodossia politica. Negli anni ’80 il suo uso si rovescia e, scrive Acanfora, «invece di essere una frase che gli attivisti di sinistra usavano per criticare (e prendere in giro) le tendenze dogmatiche all’interno dei loro movimenti, la correttezza politica divenne un argomento per i neoconservatori». Il contesto in cui questa svolta si verifica è quello americano, in cui si denuncia la presenza della sinistra nei luoghi culturali e si cerca di fermarla in nome della libertà.
La presenza massiccia del politicamente corretto, però, è una è una percezione di alcuni gruppi sociali, non un fenomeno reale. Come scrive Acanfora, infatti, «proprio chi sostiene che non si possa dire più nulla ha oggi la possibilità di lamentarsi di questa presunta censura attraverso canali che fino a pochi anni fa non esistevano» e che potenziano quelli in vigore da tempo, come la televisione. Non c’è quindi nessuna vera censura in atto, semplicemente oggi le persone che fanno parte delle comunità marginalizzate hanno degli strumenti che permettono loro di farsi sentire. Dopo anni in cui sono state il bersaglio di un uso scorretto del linguaggio e di una comicità come quella di Pio D’Antini e Amedeo Grieco, possono chiedere di essere rispettate e la loro richiesta fa rumore, seppur non sia ancora accolta da tutta la società.
Per concludere, tornando alle parole di Acanfora, «definire censura la possibilità delle minoranze di rispondere a un linguaggio irrispettoso e superficialmente rozzo, è un altro di quei trucchi da prestigiatore utilizzati da una maggioranza che probabilmente non ha conosciuto il dolore dell’offesa, la frustrazione del dolore obbligato, la necessità di indossare la maschera della normalità».