La difficile via verso la democratizzazione: il colpo di Stato in Myanmar e quel sapore amaro di déjà-vu

Di Sara Siddi

“É necessario che la comunità internazionale intervenga nella maniera più forte possibile per mettere fine al colpo di stato e all’oppressione di persone innocenti, per restituire il potere al popolo e ripristinare la democrazia”. A pronunciare questo accorato appello, seguito dal gesto delle tre dita centrali della mano destra alzate – utilizzato dai manifestati anti-regime del Paese come segno di opposizione – è stato Kyaw Moe Tun, ambasciatore birmano all’ONU, nominato dal governo democraticamente eletto lo scorso 8 novembre e prontamente bollato come traditore e licenziato dalla giunta militare che ha preso il potere in Myanmar il 1 febbraio 2021. Durante la seduta informale dedicata alla crisi birmana dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite dello scorso venerdì 26 febbraio, la prima alla quale ha partecipato anche la neo-eletta ambasciatrice statunitense Linda Toas-Greenfield, la situazione in Myanmar è stata definita “fragile e fluida” dall’Inviato Speciale ONU Christine Schraner Burgener, che ha sottolineato come la necessità di supportare il popolo birmano nella sua richiesta di democrazia (le manifestazioni di protesta generalizzate si susseguono da ormai un mese) debba partire dalla constatazione del fatto che i miliari non hanno mai realmente smesso di esercitare il potere: “Ho provato più e più volte a spiegare questa complessa situazione […]. La vera democrazia necessita del controllo civile sull’esercito”.

Perché si è arrivati quindi a un colpo di Stato militare in Myanmar? Quali sono le tensioni etniche e politiche che ne segnano la storia passata e presente?

Per capirlo, è necessario fare un passo indietro, come quello che sembra aver fatto nuovamente l’intero Paese, per la precisione al 1962, anno del primo colpo di Stato con cui i militari, guidati dal generale Ne Win, instaurano un regime dittatoriale destinato a durare sostanzialmente quasi mezzo secolo. Ex-colonia britannica, repubblica indipendente dal 1948 e caratterizzata da una rilevante componente multietnica (vi sono 135 gruppi etnici ufficialmente riconosciuti[1]) spesso alla base di forti contrapposizioni, gran parte della storia del Myanmar post-coloniale è stata caratterizzata da una robusta centralizzazione dei poteri, espressi dal Consiglio Rivoluzionario – organo che ha rimpiazzò molte delle istituzioni democratiche previste dalla Costituzione del 1947, tra cui anche il Parlamento – da un’economia in grave difficoltà a causa delle politiche socialiste di stampo birmano[2] messe in atto dal regime e, a partire dagli anni ’90 del XX secolo, da pesanti restrizioni commerciali e sanzioni. Nel corso degli anni, l’influenza dei militari – più o meno diretta ma sempre presente – sull’esercizio del potere statale ha incontrato l’opposizione di una grande fetta di popolazione e la fine degli anni ‘80 ha segnato un primo punto di svolta nella storia recente del Paese, con l’entrata in scena di una figura capace di catalizzare su di sé l’attenzione e il supporto domestico e internazionale nella lotta per la democratizzazione: Aung San Suu Kyi.

Figlia del generale Aung San, considerato una figura di spicco dell’indipendenza birmana, si trasferì giovanissima in Inghilterra dove visse fino al 1988, anno in cui decise di far ritorno in Myanmar e di impegnarsi politicamente, prendendo parte alla fondazione della Lega Nazionale per la Democrazia (LND), partito di cui divenne segretario generale e che portò a vincere le elezioni del 1990, nonostante si trovasse agli arresti domiciliari imposti dal regine (tornerà in effettiva libertà solo nel 2010). Benché a queste elezioni non fece seguito un immediato, reale cambiamento – con i militari che invalidarono il voto e continuarono ad esercitare il potere, tramite anche successive modifiche alla Costituzione, che tutt’ora ne garantiscono la sopravvivenza e la presa – l’opposizione alla giunta crebbe e si radicò tra la popolazione tanto che, nei decenni seguenti, il regime militare cessò formalmente – non sostanzialmente[3] – di esistere e la LDN gettò le basi per le vittorie alle elezioni del 2015 e del 2020.

Ma l’opposizione fra militari e sostenitori di un governo civile, da questi indipendente, non è la sola frattura a dilaniare il Paese. Come accennato prima, la composizione etnica del Myanmar è stata un’altra fonte di profonde tensioni interne e, in ultimo, di condanne internazionali. Il nome della stessa Suu Kyi – premio Nobel per la pace nel 1991 e a lungo riconosciuta internazionalmente come simbolo della lotta pacifica per la democrazia – è stato macchiato non solo dai suoi silenzi sul genocidio del popolo Rohingya (minoranza musulmana in un Paese in larga parte buddista) ma anche dal suo rifiuto, davanti alla Corte penale internazionale, di riconoscerlo come tale: un genocidio. Così, mentre alcuni hanno messo in dubbio il reale carattere democratico della sua presenza politica, altri hanno letto in questa attiva indifferenza un tentativo della Lady di far presa sull’elettorato birmano (inteso come appartenente al gruppo etnico Bamar, il principale del paese). In ogni caso, il trattamento riservato a questa minoranza – i cui diritti civili e politici sono stati ripetutamente ignorati e calpestati – è segno della mancanza di una coscienza democratica pienamente sviluppata che, in questo inizio 2021, viene ulteriormente messa alla prova.

Nonostante (ma, anzi, proprio per) la palese vittoria della LDN alle elezioni di fine 2020 e alla vigilia dell’inizio del mandato del nuovo governo, il colpo di stato dei militari ha fatto ripiombare il Paese nel caos e nell’incertezza, la cui durata è ad oggi incalcolabile. La promessa dell’esercito di indire nuove elezioni non appena concluso lo stato d’emergenza – proclamato per un anno – non ha convinto nessuno ed è per questo che da ormai un mese in tutto il Paese sono in atto proteste e manifestazioni anti-golpe, tanto nelle città quanto nelle zone rurali. Sono di questi giorni le notizie e le immagini della brutale repressione con cui la giunta sta affrontando il dissenso della popolazione del Myanmar ed è per questo che la “fragile e fluida” situazione del Paese richiede una convinta e rapida risposta della comunità internazionale.

Nella giornata del 1 marzo, la presidenza del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite – l’organo che, in base ai capitoli V, VI e VII della Carta dell’ONU, ha la responsabilità di mantenere la pace e la sicurezza internazionale, accompagnare la risoluzione pacifica delle controversie tra parti e, se necessario, agire anche con l’uso della forza per mantenere o ristabilire la pace e la sicurezza – è passata in mano agli Stati Uniti, che la eserciteranno per un mese. L’ambasciatrice Thomas-Greenfield ha espresso l’auspicio di poter intensificare la discussione sulla situazione del paese del sud-est asiatico in sede di Consiglio. Resta da vedere se il ritrovato attivismo multilaterale americano avrà un qualche effetto sui successivi passi della comunità internazionale. La condanna del golpe, espressa ad inizio febbraio dal Consiglio di Sicurezza, è parsa a molti come troppo blanda e ha risentito dell’opposizione di due dei suoi membri permanenti – Russia e Cina – che hanno espresso la volontà di non interferire con questioni di politica interna di un altro paese. La realtà è che entrambe hanno interessi nella regione, in particolar modo la Cina, che ha nel Myanmar un importante alleato commerciale e strategico per il suo progetto della nuova via della seta[4]. Anche l’ASEAN – Associazione delle Nazioni del Sud-Est Asiatico – pare stia velocizzando i tempi e intavolando una discussione sulla crisi in Myanmar, suo Paese membro, pare sotto la spinta dell’Indonesia. La richiesta ai militari, tuttavia, non sarebbe quella di restituire il Paese in mano al governo democraticamente eletto lo scorso novembre ma quella di garantire l’indizione di nuove libere elezioni alla fine dello stato di emergenza, come promesso, e la partecipazione di osservatori internazionali che ne certifichino l’apertura e la correttezza. Decisamente troppo poco per un popolo la cui voce si leva chiedendo ben altro.


[1] World Directory of Minorities and Indigenous Peoples – Myanmar/Burma, https://www.refworld.org/docid/4954ce41c.html#:~:text=The%20main%20ethnic%20groups%20living,of%20Tibetan%2DBurmese%20language%20subgroups.

[2] L’ideologia adottata dal Partito del Programma Socialista Birmano – unico partito riconosciuto come legale nel Paese dal 1962 al 1988 – è conosciuta come “la via birmana al socialismo” e ne permea l’intero processo decisionale politico ed economico. 

[3] Nel 2010 venne fondato il Partito dell’Unione della Solidarietà e dello Sviluppo, che funge da espressione politica dei militari che, tramite quest’ultimo, hanno continuato a detenere il reale potere statale.

[4] Per chi vuole capire di più sugli interessi di Pechino in Myanmar e nella regione, consiglio la lettura dell’articolo “Il colpo di Stato in Myanmar non cambia i piani della Cina”, di Giorgio Cuscito su LIMES – https://www.limesonline.com/rubrica/colpo-di-stato-myanmar-cina .