“There’s a poem in this place” – l’esperimento americano continua

Di Sara Siddi

Il 10 gennaio 2017, nel corso del suo ultimo discorso come Presidente degli Stati Uniti d’America, Barack Obama parlò principalmente di democrazia. Ne parlò con passione e realismo, con quel suo approccio pragmatico alla politica attento alla realtà dei fatti (the world as it is) e allo stesso tempo proiettato verso il cambiamento sperato (the world as it should and could be).

Ne parlò soprattutto al presente, considerandola quanto mai cosa viva e, per questo, bisognosa di cure e impegno. E suonò, per così dire, l’allarme rispetto ai pericoli e alle sfide che la democrazia americana si trovava e si sarebbe trovata ad affrontare.

Ne indicò tre – le disuguaglianze economiche, le tensioni razziali e le fratture partitiche/ideologiche per le quali si finisce per accettare solo quelle informazioni che supportano le proprie convinzioni, vere o false che siano – e le ricondusse tutte a un più grande pericolo, il potenziale peccato originale di ogni cittadino: l’idea che la democrazia e il funzionamento delle sue istituzioni possano essere dati per scontati.

Obama individuò nella partecipazione attiva di ogni cittadino la sola vera arma di protezione di massa della democrazia nonché l’effettivo motore di cambiamento e progresso. 

Che gli anni successivi sarebbero stati sicuramente diversi – probabilmente difficili – ne era convinto Obama così come ne erano convinti gli americani stessi, gli alleati oltreoceano e il mondo intero. Se da un lato il voto del 2016 è stato espressione di un desiderio generalizzato di rottura verso l’establishment – in un certo senso ricalcando la spinta stessa che aveva portato Obama alla Casa Bianca nel 2008 – dall’altro non è stato che la prima, più evidente dimostrazione di reazionaria insofferenza di parte della società americana che, facendo fatica a riconoscersi nell’America nuova e rinnovata – anche demograficamente – si illudeva di poterla rimodellare a immagine e somiglianza di ciò che era stata. Make America great again, no?

Eppure, di grandezza se n’è vista decisamente poca. Al contrario, quello che è andato in scena a Washington – e su Twitter (!) – negli ultimi quattro anni è stato un pericoloso spettacolo dell’assurdo che, se all’inizio ha suscitato un disorientato stupore, nel giro di poco tempo ha portato a galla tutta la frustrazione, la lacerazione e le debolezze di quella che, fino a ieri, era per tutti la più grande potenza al mondo.

Il cielo sopra la shining city on the hill si è riempito di nubi basse e dense e, senza il sole ad illuminarla, questa città splendente ha iniziato a prendere sempre più le sembianze di tante altre a noi note, con crepe sugli edifici, strade qua e là dissestate e una periferia lontana anni luce dal centro. Le sue istituzioni a un tratto sono sembrate meno resistenti, i suoi abitanti meno comunità, la sua aura di eccezionalità meno credibile. In un certo senso, il suo declino ha assunto le forme di un destino comune per quel mondo plasmato dal secolo americano.  

Abbiamo ancora davanti agli occhi le proteste violente del 6 gennaio scorso, l’assalto al Campidoglio, l’aspetto grottesco di certe figure, la profonda convinzione di quelle tante persone di essere davvero nel giusto, che il loro fosse davvero un atto di patriottica difesa della democrazia (forse, questo, il dato più allarmante).

Ma quelle scene non sono state altro che le note di chiusura di un atto – e neanche quello finale – che ha portato in scena personaggi, trame e dialoghi già scritti. Non è stato Trump a crearli – semmai a dar loro voce – e non sarà la sua assenza, posto che si concretizzi, a farli magicamente svanire. Sono invece figli delle complessità, delle stratificazioni e delle contraddizioni della società americana. Ne sono l’espressione peggiore, ma anche la wake-up call rivolta alla sua parte migliore, quella che lotta per le conquiste sociali, le opportunità condivise e la difesa dello stato di diritto. 

La grande sfida americana inizia quindi adesso e sta tutta nel saper e voler ricomporre ciò che pare ormai rotto, nel riuscire a ritrovare un comune senso di appartenenza, di unità. 

Entrato ufficialmente in carica come 46° presidente degli Stati Uniti d’America nella giornata di ieri, 20 gennaio 2021, con una cerimonia resa ancora più anomala dalle restrizioni anti-Covid e dall’assenza del suo predecessore, Joseph Robinette Biden ha il compito di iniziare un’opera di ricostruzione e rinnovamento che non sarà né breve né facile e che si estenderà ben oltre l’orizzonte temporale della sua presidenza. È lui il primo ad esserne consapevole e con il suo discorso inaugurale ha voluto tracciare la direzione.

Definendo l’inizio della sua presidenza come il trionfo di una causa – quella della democrazia – ha ripreso l’idea della sua preziosa fragilità e, come in un’ideale continuazione del lascito di Barack Obama, ne ha restituito ai cittadini la paternità: “la storia americana non dipende da uno di noi né da alcuni di noi, ma da tutti noi. Da ‘Noi il Popolo’, alla ricerca di un’unione più perfetta”. Chiamando per nome i fantasmi americani vecchi e nuovi – il suprematismo bianco e l’estremismo politico, le crescenti diseguaglianze e il ricorso alla manipolazione della verità e dei fatti – ha richiamato il Paese all’unità, la “strada del progresso” senza la quale “non c’è pace, solo rancore e furia” e a terminare quella da lui definita una “guerra incivile”. 

Consapevole poi che il lavoro di ricostruzione passa anche dalla riabilitazione dell’immagine degli Stati Uniti nel mondo, tratteggiando quella che potrebbe diventare la sua politica estera, ha voluto mandare un chiaro messaggio oltre i confini: “l’America è stata messa alla prova e per questo ne siamo usciti più forti. Ripareremo le nostre alleanze e torneremo a impegnarci con il mondo. Non per affrontare le sfide del passato, ma quelle di oggi e di domani. Guideremo non tanto con l’esempio della nostra forza quando con la forza del nostro esempio. Saremo un partner forte e fidato per la pace, il progresso e la sicurezza”.

Citando Lincoln, Biden ha promesso agli americani e al mondo che dedicherà i prossimi anni a rimettere insieme l’America. “My whole soul is in this / in questo metto tutta la mia anima”. Per il bene degli Stati Uniti e non solo, non si può che augurargli buona fortuna. L’esperimento americano continua. 


Il titolo dell’articolo – There’s a poem in this place – è ripreso da una composizione di Amanda Gorman, la giovane poetessa che – durante la cerimonia di inaugurazione della presidenza Biden del 20 gennaio 2021 – ha recitato la sua potente poesia The Hill We Climb.