Pechino, appunti di viaggio – Gli Hutong
Di Alessandra (Sasha) Frascati
Pei vichi antichi e profondi
Fragore di vita, gioia intensa e fugace
(Dino Campana)
In questo periodo difficile che ci costringe a casa, vorrei portarvi con me in un viaggio a ritroso nel tempo, guidandovi alla scoperta dell’anima nascosta di Pechino. Questo breve testo narrativo è un ricordo scritto ormai 10 anni fa, al tempo in cui frequentavo l’università nella capitale del Celeste Impero.
Esco la mattina presto dal dormitorio dell’università come se dovessi concludere chissà quali affari, mentre voglio soltanto fare una passeggiata per Pechino. Non ho una meta precisa, mi dirigo verso Zhonglou – la via della Torre della Campana – quasi per sbaglio, come sospinta da una mano invisibile che mi guida, per l’ennesima volta, verso quel luogo. Appena uscita dal campus vengo assorbita nella gran folla di gente in marcia nel paese quotidianamente, a tutte le ore, infaticabile, attiva. Me la ritrovo attorno quella massa, pigiata in metropolitana che nemmeno nelle ore di punta da noi, nel traffico parossistico che blocca le sei tangenziali e le tante superstrade, di tre, cinque, anche sei corsie, che s’intrecciano, correndo tra grattacieli disordinati e incombenti, in un reticolato impressionante che ti rimpasta nel cervello la tua vecchia idea di città.
La pioggia battente caduta nei giorni scorsi ha trasformato le strade in una gigantesca pozzanghera che il sole di questa giornata cerca invano di asciugare. L’ultima stella scompare timida tra le campane di Zhonglou, come se avesse terrore di questo cielo azzurro elettrico che spunta frenetico sui cantieri già attivi.
Per evitare il traffico delle betoniere scantono negli hutong in disfacimento. Hutong è una delle prime parole che ho imparato a lezione di cinese: budelli di strade lunghi e sinuosi, sui quali si affacciano le tradizionali case basse a un piano – le siheyuan. Hanno un cortile o un giardino interno, come a tenere per sé quanto di intimo, di privato, di familiare, di arcano vive al di là delle mura. Quartieri di casupole dai tetti uguali, rossastri, ondulati. Sai dove cominciano, magari sotto una porta di legno colorato, verde rosso e blu, che pare un arco di trionfo, e non capisci dove vadano a finire. Puoi sbucare all’improvviso, quando meno te lo aspetti, dopo un vagabondare infinito, su un parco, davanti a un tempio, accanto a una rosticceria, a una rivendita di bibite, a una fermata dell’autobus. È lì che la vita del popolo “pulsa”: di giorno la gente sbocca all’improvviso dalle proprie case, vi stende i panni ad asciugare, vi apre i negozietti di tè, o modesti luoghi di ristoro dove si mangia la minestra con la pasta, vi passa in piedi o in bicicletta, transita con il risciò, vi sosta a chiacchierare animatamente (e ogni volta la frase finisce con un “ha” svelto e strascicato, che ha il sapore di una domanda e di una risposta insieme…) I vecchi si accucciano per terra accarezzandosi le ginocchia, alcuni giocano al mahjong o alla dama cinese, i monaci canticchiano serafici le loro preghiere, i ragazzi giocano a palla. La sera tutto si chiude presto e senza preavviso, e la vita del giorno sparisce come per incanto oltre i cancelli, le porte chiuse, i muri bassi di mattone grigio. È dentro il labirinto degli hutong, grigi e impolverati, anonimi e disordinati, che sembra esserci la vera vita cinese. Non quella ostentata, nel bene e nel male, del traffico e del caos, delle enormi insegne luminose, dei palazzi futuristici e della metropolitana. È solo là dentro, in quel labirinto misterioso, che mi sembra di sentir battere il cuore di un mondo che non c’è più. E che pure resiste. Anche se, ahimè, nessuno più lo vuole: le ruspe lavorano senza mai fermarsi per fare spazio ai grattacieli, alle piazze, ai parchi, alle grandi arterie che baipassano la metropoli. Quando va male, lo hutong sparisce all’improvviso. Quando va bene, lo ricostruiscono per i turisti.
Vagando senza meta nel dedalo di hutong che attorniano Zhonglou, mi chiedo come sarà la vita, la vera vita, là dentro.