Mind the (gender) gap: come la disuguaglianza di genere rallenta l’economia e cosa possiamo fare. Intervista all’economista Azzurra Rinaldi.
Di Elena Esposto
Il gender gap pesa in modo sostanziale sulla salute dei nostri sistemi economici, eppure chi si occupa di gender economy continua a scontrarsi con la miopia delle istituzioni che si ostinano a non investire su attività che promuovano la parità di genere nell’economia.
Ne abbiamo parlato con Azzurra Rinaldi, economista, docente di Economia Politica presso l’università degli Studi di Roma Unitelma Sapienza e una delle fondatrici del movimento Il Giusto Mezzo.
Ciao Azzurra! Innanzitutto grazie per la disponibilità a quest’intervista. Spazio STEMminista è una rubrica che ha come obiettivo quello di raccontare le donne nel mondo delle STEM. Quando parliamo di gender gap nelle STEM, generalmente ci limitiamo a pensare ai campi delle cosiddette hard sciences, dimenticandoci che anche l’economia e la finanza sono mondi principalmente maschili. Com’è stata la tua esperienza di economista e di accademica, e come sono cambiate le cose (se sono cambiate) negli ultimi anni?
In generale, l’accademia non è un posto per donne e l’economia non è una materia per donne nel senso che, dati alla mano, ci sono tante ragazze che si iscrivono ad economia, poche che vanno avanti e pochissime che diventano ordinarie, ma anche associate, insomma pochissime che riescono a salire.
Io nella mia carriera ho trovato qualche difficoltà legata alla maternità: ho avuto quattro figlie e questo, senza ipocrisia, ha rallentato la mia carriera, perché anche se stavo bene ero obbligata, ogni volta, ad uscire dall’università per cinque mesi, perdendo il capitale relazionale che è importante in un lavoro di questo tipo, è quello grazie a cui si pubblica, si mantengono i rapporti con i colleghi.
Detto questo, sicuramente questi sono ambienti più maschili. La mia fortuna è che sto facendo la carriera in Sapienza Online, dove siamo pochi e giovani, e devo dire che non vivo quelle tipiche situazioni di cui si sente parlare in accademia. Non ho vissuto situazioni particolarmente crude.
Tu hai tanti campi e interessi di ricerca, come l’economia dello sviluppo e dei paesi emergenti, ma ti occupi anche di gender economy. Puoi spiegare a chi ci legge che cos’è l’approccio dell’economia di genere e quanto pesa il gender gap sulla situazione economica del Paese?
La gender economy è stato il mio primo e grande amore di ricerca, che per un periodo ho abbandonato e alla quale poi sono ritornata. È un ambito di ricerca estremamente affascinante perché dimostra quanto il sistema economico perde non utilizzando appieno le potenzialità della forza lavoro, e quanto costi al sistema economico la disuguaglianza di genere.
Questo è un tema che tocca un po’ tutti i Paesi e su cui si riesce a fare anche molta ricerca internazionale, tenendo presente però che ci sono alcuni Paesi che sono molto più virtuosi di altri, e il nostro non è fra questi. Ci sono i Paesi Scandinavi che performano molto meglio, c’è il Sudafrica, che nell’ultimo Global Gender Gap Report si è collocato molto più in altro di noi.
Noi partiamo, in alcuni casi, con la presunzione di avere una performance di paese avanzato, ma in termini di gender gap il nostro paese ha la performance peggiore di quella di un paese in via di sviluppo.
L’ultimo Global Gender Gap Report, che è il report sul gender gap che viene rilasciato ogni anno dal World Economic Forum, mette il nostro paese in 76° posizione, indicando particolari aree di sofferenza, come quella economica, dove siamo 125i su 153 Paesi analizzati per parità retributiva (a parità di mansione) tra uomini e donne, il che è assurdo perché siamo ottavi per PIL.
Andiamo molto male sia nella dimensione economica che in quella della rappresentatività, e purtroppo questi due fattori sono collegati.
L’economia di genere serve proprio per farci capire a livello sistemico quanto stiamo perdendo. C’è uno studio recente della Commissione Europea che ci mostra che a livello europeo, ogni anno, la gender inequality costa 370 miliardi di euro. Quello che studiamo, nella gender economy è, da un lato, quali sono i costi della disuguaglianza, dall’altro come superare questa situazione.
Ci sono una serie di strumenti che utilizziamo, come ad esempio la valutazione dell’impatto di genere, che è quella che abbiamo fatto io e una collega austriaca (al momento è l’unica al mondo, per quanto mi risulta) sui fondi di Next Generation EU, ed è una valutazione che non si può fare che in un ambito di economia di genere, perché parte dal presupposto per cui ogni euro pubblico speso esercita un impatto differente sugli uomini e sulle donne.
E se questo è banale per noi che lo viviamo da donne, non lo è per chi elabora le politiche, che spesso sono i cosiddetti old white boys.
Sotto un certo punto di vista è anche comprensibile perché ciascuno di noi agisce in base al suo portato di esperienza, quindi è normale che un uomo etero, bianco di 50 anni abbia un portato che non lo conduce a porsi la domanda su come queste politiche impatteranno diversamente su uomini e donne.
Visto che citavi il World Economic Forum, se non sbaglio l’ultimo dato disponibile mostrava che ci vorranno più di cent’anni per colmare il gender gap. Quali azioni concrete sarebbe necessario mettere a terra per accelerare il processo, sia dal punto di vista dei Governi, ma anche delle aziende, quando non dei privati?
Rispetto a questo innanzitutto c’è un aspetto più quotidiano e culturale cui siamo chiamati tutte e tutti, opponendoci alla disuguaglianza, facendo notare cosa non va, facendo attivismo e così via. Questo però è un passaggio culturale che va fatto anche dall’alto, serve un raccordo, e qui l’istituzione deve riprendere un po’ il suo ruolo di responsabilità nei confronti della popolazione.
Serve un raccordo da un lato di natura economica, legato al mercato del lavoro. Bisogna liberare la forza lavoro femminile, e finché le donne saranno ingabbiate in attività di cura non retribuite non saranno libere di produrre reddito. Questo è un atteggiamento miope, perché nel momento in cui le donne non lavorano siamo tutti più poveri, c’è metà del Prodotto Interno Lordo, la metà del gettito fiscale, la metà dei servizi per tutti e per tutte.
Dall’altro lato c’è bisogno di favorire questo passaggio culturale.Penso all’Italia del sud dove lavora una donna su quattro.
È un po’ come un cane che si morde la coda: mancano i servizi di base, le donne sono chiamate nell’arco della giornata a effettuare lavori di cura non retribuiti, ma è pur vero che se i servizi di base non vengono forniti, la forza lavoro femminile non si libera. Perché se c’è una famiglia con bambini piccoli o persone anziane da accudire, e c’è una persona che lavora (che è il marito), e una persona che non lavora (la moglie), automaticamente il carico del lavoro di cura viene a ricadere sulla persona che non lavora.
Un altro aspetto importante di questo passaggio culturale è quello di favorire l’ascesa delle donne a posizioni manageriali.
Noi donne veniamo cresciute con il refrain che le peggiori nemiche delle donne sono le donne, ma io parlo con centinaia di donne ogni anno, e mai nessuna mi ha confermato questa cosa nella sua vita.
La nostra esperienza quotidiana ci dice totalmente il contrario. C’è addirittura una ricerca del Credit Swiss Research Institute (non proprio un covo di femministi) che dimostra il contrario. Hanno studiato le società quotate in borsa e hanno visto che quando c’è una CEO donna, nel 50% dei casi in più si sceglie una CFO donna, e quando nelle posizioni di top management ci sono delle donne, nel 50% dei casi in più lo staff è composto da donne.
Quindi bisogna agevolare questo processo, perché se nessuna arriva in cima nessuna è in grado di fare questo passaggio di cooptazione. Noi su questo ci possiamo battere, possiamo fare del nostro meglio nelle nostre professioni, però serve un quadro, una cornice istituzionale, altrimenti ci vorranno duecento anni.
Tu sei tra le fondatrici della campagna “Il giusto mezzo” che chiede che si utilizzino i soldi del Recovery Fund per sostenere l’occupazione femminile e attenuare il gender gap. Ci racconti un po’ come è nato il progetto e a che punto è?
La campagna è nata dal Alexandra Geese, che ha leggendo la bozza di Next Generation EU, ha avuto l’intuizione che i fondi, così come sono stati pensati fino ad adesso, andranno a peggiorare la disuguaglianza di genere. Così ha chiesto a me e ad un’altra economista, una collega austriaca, di fare la valutazione di impatto di genere e, in effetti, i dati confermavano la sua sensazione.
Così ha lanciato la campagna Half of it, per chiedere che la metà dei fondi di Next Generation EU fossero destinati ad attività che coinvolgevano le donne. Ha presentato la nostra ricerca in commissione, il 18 di giugno, e la Commissione europea ha detto che era tutto bellissimo ma che avevano già raggiunto l’accordo e che non si poteva più cambiare. Il Parlamento, però, il giorno dopo, ha ritenuto che fosse una cosa fondamentale e ha proposto che nei piani nazionali che ogni Governo deve elaborare per ricevere questi fondi ci fossero dei meccanismi di premialità, per quei Paesi che (come l’Italia) partono da una situazione di squilibrio di genere e che dimostrano che con il piano nazionale metteranno in campo azioni per migliorare la situazione.
Qui arriva il Giusto Mezzo, perché il modo in cui il piano viene elaborato diventa fondamentale per tutto quello che succede da quel momento in poi: una volta che il piano è elaborato e diventa effettivo poi non abbiamo più margine di manovra.
Abbiamo iniziato a fare queste iniziative da un lato per chiedere che questi soldi venissero spesi come ha chiesto il Parlamento Europeo, dall’altro per dialogare con il Governo, sia per far capire che verifichiamo quello che fanno, sia per mettere a disposizione le nostre professionalità, gratuitamente, per cercare di arrivare a un piano che almeno non peggiori la situazione.
Quello che vediamo, però, è che in tutte le bozze che vengono presentate non c’è un dettaglio delle voci di spesa. Ci sono solo gli ammontari complessivi e quindi di fatto non si capisce niente.
Ad esempio, questi 4 miliardi che vengono dati per la parità di genere, a parte che sono pochissimi sulla macro categoria dei 18 miliardi, non si sa all’interno come sono articolati.
Quindi noi continuiamo a insistere, anzi quest’ultimo mese sarà un mese di grande attività, perché bisogna capire come verranno spesi questi soldi. Stiamo continuando a raccogliere le firme, a fare attività di sensibilizzazione, interviste, comunicazione sui social, io continuo a sfornare numeri… insomma ognuna fa quello che è brava a fare, perché questo mese è fondamentale. Ma per ora, per quello che vediamo, proprio non va bene.
Per chi ci legge ci sono azioni per sostenere la campagna, a parte firmare la petizione?
Aiutarci a condividere il più possibile le nostre iniziative, perché se noi ci rendiamo bene conto di tutto questo ci sono ancora molte donne e molti uomini non capiscono quello che sta succedendo, un po’ perché non hanno gli strumenti, un po’ perché non hanno interesse, un po’ perché non cercano informazioni o perché sono informazioni molto tecniche.
Molto di quello che stiamo facendo adesso (stiamo anche organizzando un flash mob) sono iniziative di sensibilizzazione: far capire alle donne e agli uomini che da un lato non è una questione solo femminile, perché in un principio di efficienza economica, se uno sta male tutti stanno male.
Dall’altro che questa dataci dalla pandemia è un’occasione che certo avremmo preferito non avere, ma purtroppo, essendo la situazione quella che è, questa rappresenta per noi una situazione unica, e usare i soldi in una maniera non efficiente significa non far esplodere il potenziale moltiplicativo in termine di produzione e di reddito.
Vogliamo alzare il livello di consapevolezza, e su questo chiunque voglia dare una mano è più che benvenuto.
La pandemia ha dato un duro colpo all’economia e in particolare al settore femminile. Le donne sono quelle che hanno pagato sicuramente il prezzo più alto, insieme ai giovani. Abbiamo però assistito ad un’accelerazione dell’utilizzo delle tecnologie e degli strumenti digitali. Questo può rappresentare un’opportunità? E come?
Su questo non ho dati, quindi ti parlo di una percezione. Quello che io ho visto, che ho sentito dai contatti che ho avuto grazie a queste attività è che le donne sono sopraffatte dalla stanchezza.
Ho notato che molte persone hanno tolto anziché aggiungere, perché non ce la fanno. Se prima c’era il tempo della cura e il tempo del lavoro, anche per noi donne, e c’era il luogo della cura e il luogo del lavoro, adesso con lo smart working c’è una commistione di tutto, di tempi e di luoghi, di cura e di lavoro, e quello che io ho visto è un grande affaticamento.
Allo stesso tempo però penso che protagoniste come questo momento, nella vita del nostro Paese, noi donne non lo siamo state mai. Non protagoniste della vita, purtroppo non ancora, ma del dibattito sì. Se c’è un fattore che è stato favorito dal lockdown è che le donne più che mai hanno fatto rete.
Eravamo così stanche, stressate, sfinite, preoccupate e arrabbiatissime che mai come ora abbiamo in mano una rete potente che, questa sì, utilizza le tecnologie.
Come nel caso di quello che è successo pochi giorni fa, quando in risposta ad un nostro comunicato stampa abbiamo ricevuto un messaggio dal direttore di Industria Italiana che definiva la parità di genere “un’orrenda menata”.
Si è scatenato un polverone di post di donne e uomini e delle storie bellissime, anche su Instagram, di persone che trovavano assurdo che il direttore di una rivista che è anche una persona importante in Asso Lombarda, risponda ad un comunicato stampa dicendo una cosa del genere. Non si può più fare, mentre prima invece sì.
A proposito di questo l’attrice femminista Valentina Melis ha detto che non è più come una volta, quando si poteva dire qualunque cose ma noi non eravamo collegate fra di noi, e magari ci incazzavamo ma ciascuna per sé. Adesso non ne facciamo più passare mezza, proprio perché siamo collegate. E questo è l’aspetto veramente positivo, questa connessione che prima non c’era.
Tu a ottobre hai partecipato ad un evento bellissimo “donne con i numeri. Scienziate, scrittrici, economiste che possono cambiare il mondo”. Quanto è importante l’interdisciplinarietà e l’unione di donne che lavorano in ambiti diversi per il cammino verso la parità?
Secondo me è fondamentale, ed è anche per questo che rispetto ad altre attività ed altre iniziative il Giusto mezzo funziona molto bene, perché include donne con esperienze differenti. Sono donne diverse (accademiche, parlamentari, influencer…) che condividono questo obiettivo.
Questa è una cosa cui tengo molto anche nella ricerca, e vale per le donne e anche per gli uomini, perché bisogna portare a bordo anche loro, almeno quelli che si possono portare a bordo.
Per esempio all’università abbiamo sviluppato un gioco in virtual reality per fare inclusione finanziaria delle bambine, e oltre a me, che insegno economia politica, c’erano una collega che insegna matematica finanziaria e un collega che è neuropsichiatra.
Come dicevamo all’inizio la diversità è il valore. Il fatto che ognuno e ognuna porti il suo carico di esperienze e la propria visione è fondamentale, perché ci consente di aprirci.