Il razzismo in Italia, e quei corpi estranei che ci ostiniamo a non accettare
Di Elena Esposto
La prima volta che mi scontrai con una riflessione seria sul razzismo avevo vent’anni e mi ero appena trasferita a Rio de Janeiro.
Fino a quel momento la mia vita si era svolta principalmente in un ambiente bianco e tutto sommato senza troppi pregiudizi. Come molti di noi potevo vantare amici, compagni di scuola e perfino un cuginetto di colore. Credevo che il razzismo non mi appartenesse; era un problema gravissimo, certo, ma che riguardava un altro tipo di persone, non me.
Fu il Brasile ad aprirmi gli occhi su quel razzismo che possiamo chiamare “sistemico”, quello che permea le nostre società, anche in Europa, anche in Italia, e che è pericoloso proprio perché latente e perché le sue manifestazioni non sono sempre eclatanti.
Durante una lezione di storia delle relazioni internazionali incentrata sul tema del colonialismo uno dei miei professori ci disse, senza mezzi termini, che eravamo tutti razzisti, lui compreso.
In classe si alzò un mormorio incredulo, anche se a ripensarci oggi avevamo poco da essere increduli. Nonostante più della metà della popolazione brasiliana si definisca nera o mulatta, in quella classe eravamo tutti bianchi.
Ma non era quello il punto che il professore voleva sollevare.
“Pensateci bene” aveva detto, “siete razzisti tutte le volte che vi spaventate quando di sera vi capita di trovarvi sull’autobus con solo persone di colore, tutte le volte che avete pensato che rimorchiare una ragazza di colore sarebbe stato più facile, tutte le volte che un ragazzo di colore è salito in metro e voi avete tenuto lo zaino più stretto, e anche tutte le volte che avete pensato che se ci sono così poche persone di colore che lavorano in banca, in università o che so io, il problema non sia la discriminazione ma la loro bassa intelligenza. E potrei continuare…”
Non servì. In aula non volava più nemmeno una mosca e lui capì di aver fatto centro.
Nessuno di noi aveva mai considerato che quegli atteggiamenti fossero razzisti e offensivi. Facevano talmente parte del modo in cui eravamo stati cresciuti, dei discorsi che avevamo sentito fin nella culla che erano diventati parte di noi.
Oggi è la Giornata Mondiale per i diritti dei migranti e credo che sia un ottimo spunto per ricominciare a parlare di razzismo, e vorrei farlo a partire da uno strumento che io trovo imprescindibile: il libro “Corpi estranei” di Oiza Queens Day Obasuyi, edito dalla casa editrice People.
Oiza Obasuyi, italiana di origini Nigeriane, ci offre una lucida analisi dello stato del razzismo in Italia, a partire dal colonialismo fascista fino ai giorni nostri, e il quadro non è per niente rassicurante.
Partiamo da un fatto: in Italia c’è un buco conoscitivo enorme per quanto concerne la nostra storia coloniale
Nascondendoci dietro l’effimero concetto degli “Italiani brava gente” per decenni abbiamo negato la storia così come essa è accaduta, e come è stata percepita dai popoli di Etiopia ed Eritrea.
Forse l’Italia non aveva il controllo su grandi territori come la Francia o l’Inghilterra, forse economicamente parlando non abbiamo tratto benefici economici che potessero eguagliare quelli di Spagna e Belgio, ma questo non cancella la brutalità che l’esercito italiano ha usato contro i popoli colonizzati, non cancella i crimini, la schiavizzazione delle donne o l’utilizzo di gas asfissianti contro i civili, e non importa quante scuole, ponti o ferrovie sono stati costruiti nel frattempo.
Insomma, sarebbe ormai il momento di guardare in faccia la realtà e ammettere che non esiste un colonialismo buono, nemmeno quello italiano.
Questo atteggiamento da struzzi che ha caratterizzato il nostro Paese dalla fine del fascismo, come sottolinea Obasuyi, ci ha fatti cadere nel riduzionismo e nella banalizzazione, impedendo qualsiasi tipo di dialogo che contribuisca alla decostruzione del razzismo di matrice coloniale e portandoci a credere che il colonialismo e le sue nefandezze siano stati “semplici errori in cui tutti possono incorrere”.
Uno degli aspetti su cui Obasuyi insiste molto nel testo è la questione della percezione dei corpi neri, e di come questa sia pesantemente falsata. Solo per fare qualche esempio tra quelli riportati, l’idea della donna nera come prostituta o “indomabile vogliosa” o la rappresentazione grottesca e stereotipata degli uomini neri presi in giro per la loro (presunta) poca intelligenza è stata portata avanti fino a tempi recentissimi dai media e dalla televisione italiana. (E a proposito di razzismo nella tv, proprio la settimana scorsa, in un programma comico, mi è capitato di vedere l’agghiacciante imitazione della parlata di una donna cinese).
Mentre in altri Paesi assistiamo ad un dibattito sulla decostruzione razzista della percezione dei corpi neri (nei Paesi Bassi, ad esempio, da tempo si discute sul razzismo insito della figura di Swartze Piet, l’aiutante di colore di Sinterklaas che viene impersonato da persone bianche che si tingono la faccia di nero) in Italia questo discorso manca completamente. E non solo nei media.
Come sottolinea Obasuyi nel nostro Paese il tema del colore della pelle è fortemente politicizzato, quando non apertamente strumentalizzato, come nel caso del corazziere nero sbandierato durante la visita di Salvini al Quirinale o dei titoli sensazionalisti sul “primo avvocato nero”.
Scrive Obasuyi: “Essere neri in Italia […] spesso implica essere soggetti a categorizzazioni e strumentalizzazioni poggiate sul nulla: lo stupore generato dai media è figlio di un retaggio antico ed è totalmente in contrasto con il processo di normalizzazione che meriterebbe ogni persona – italiana o meno – di diversa etnia all’interno del tessuto sociale del Paese”.
La mancanza del processo di normalizzazione è esasperata dalla rappresentazione dicotomica dell’immigrato come criminale o come forza lavoro sfruttata, che porta a dimenticare che ogni persona, indipendentemente dall’etnia o dal colore della pelle, è un individuo a sé che non deve per forza rispecchiare le aspettative che abbiamo su di lei o su di lui.
“Le persone nere non sono corpi spersonalizzati, ma individui pensanti, di classi sociali diverse – e quindi con valori diversi – con una propria visione del mondo, della società e della politica, ed è questo l’aspetto, forse scomodo, quando si parla di razzismo e antirazzismo. Possono dunque coesistere persone nere che lottano dal basso e che vogliono, giustamente, decostruire stereotipi, pregiudizi, problemi sociali inerenti la mancanza di diritti che affligge in particolar modo le minoranze, e persone nere a cui non interessa impegnarsi in lotte simili, molto probabilmente perché hanno raggiunto uno status di privilegio socio-economico che non hanno intenzione di condividere tramite politiche migratorie, sociali, di welfare giuste e alla portata di tutte e di tutti. Motivo per cui l’utilizzo strumentale del colore della pelle come unico mezzo antirazzista […] per andare contro i partiti e le ideologie fallisce miseramente”.
L’altra faccia della medaglia di questa visione paternalistica è quello di considerare gli stranieri (in particolare di pelle scura) come corpi e menti vuoti che hanno come unico scopo nella vita quello di aspettare il salvatore bianco. Anche questa è figlia di tanta narrazione mediatica, sterile e superficiale, che nei decenni ci ha bombardati con la cosiddetta “pornografia della povertà”, omettendo tutte le risorse locali di cui di Paesi africani di fatto disponevano.
Una sorta di moderno “hic sunt leones”, insomma.
La lettura del libro di Obasuyi è quindi fondamentale per aprire finalmente una discussione concreta, in primo luogo con noi stessi, e per farci rendere conto di quanto siamo condizionati dal razzismo sistemico, anche quando ci crediamo immuni.
L’ombra paternalistica ed etnocentrica pende su di noi come una spada di Damocle, anche quando ci crediamo virtuosi. Basti pensare all’ondata di adesione al movimento di Black Lives Matter che per molti non è andato oltre qualche slogan estemporaneo postato sui social, quasi fosse necessaria la morte di Floyd negli Stati Uniti per farci rendere conto che anche in Italia esistono afro-discendenti e persone di colore.
Insomma, abbiamo bisogno di fare una riflessione profonda sullo stato del razzismo in Italia, uscire per un attimo dalla nostra comfort zone e sviluppare maggiore consapevolezza di come stanno le cose, perché senza di essa non riusciremo mai a raggiungere il cambiamento radicale che ci prefiggiamo.
Guardare le cose in faccia e chiamarle con il proprio nome è fondamentale per superarle.
Come farlo?
Iniziamo ad ascoltare la voce di chi ci sta intorno, iniziamo a riconoscere come razzismo quello che a noi non sembra tale ma che magari per altri lo è, facciamoci guidare da chi lo vive sulla propria pelle scendendo dal piedistallo del paternalismo bianco, mettiamo per un attimo da parte il nostro desiderio di sentirci meglio con noi stessi e poniamoci in ascolto, con apertura e una buona dose di umiltà.
E un buon modo di cominciare è proprio leggendo questo libro!