Ciao Diego Armando, anche le donne parlano di calcio
Di Caterina Frusteri Chiacchiera
L’ho saputo solo stamattina, ascoltando la radio, mentre ero in macchina insieme a mio marito: è morto Maradona.
Sono rimasta per un attimo tramortita; ho alzato il volume per ascoltare meglio: sì, avevo capito bene, Diego Armando Maradona si è spento ieri, a Buenos Aires, per un’insufficienza cardiaca.
Non sono per niente una seguace del calcio, e questo non per uno stereotipo di genere: neanche mio marito è un tifoso, eppure siamo rimasti entrambi ammutoliti, sconcertati. Perché la figura di Maradona ha segnato, in qualche modo, entrambe le nostre generazioni.
Sono figlia di immigrati meridionali trasferiti al Nord e sono stata bambina negli ’80. Ho passato la mia infanzia in un quartiere popolare, dove di famiglie come la mia ce n’erano tante, tantissime, provenienti dalla Sicilia, come noi, ma anche dalla Calabria, dalla Puglia, dalla Campania… da tutto il Sud, insomma.
Non lontano da casa nostra c’è ancora un palazzo, le case delle poste; adesso questo luogo è molto cambiato, sia come estetica, sia come organizzazione, ma mi emoziona ancora passarci vicino.
In quel condominio, ai tempi, vivevano tanti miei compagni di classe, e la maggior parte di loro era di origine napoletana.
Formavano “una colonia” organizzata e affiatatissima; amavo andarli a trovare, c’era sempre tanta allegria: noi bambini giocavamo nel cortile, mentre le loro madri chiacchieravano tra loro in dialetto napoletano, affacciate ai balconi.
In quasi tutte le case c’erano poster del Vesuvio e del mare; ovunque si ascoltava Pino Daniele a volume altissimo: jo so pazzo, jo so pazzo; nella sala condominiale si organizzavano cineforum per vedere i film di Totò o di Troisi (quanta tristezza quando è morto!) e i miei amici, seppure bambini di 7 o 8 anni, cantavano con orgoglio, con struggimento, e senza timore di risultare “fuori moda”, le canzoni neomelodiche napoletane, da quelle di Mario Merola al più contemporaneo Nino D’Angelo.
Io, siciliana, ho appreso da loro a riconoscere la mia diversità, e a farla diventare qualcosa di bello, di positivo. Già, perché la vita, al Nord, non era semplice: noi, i bambini meridionali, eravamo “gli altri”, i diversi.
I primi insulti ho iniziato a sentirli già alle elementari: terroni, lavatevi che puzzate, ladri, tornatevene da dove siete venuti, i vostri genitori sono venuti a rubare il lavoro ai nostri… (Non oso immaginare la sofferenza, oggi, provata dai ragazzi di origine straniera vittime del razzismo).
Certo, non tutti i compagni erano così, ma chi si accaniva contro di noi c’era, e bastava. Quanto ferivano questi attacchi!
E poi, a un certo punto, ad aiutarci, è arrivato lui: Diego Armando.
I miei compagni napoletani, e io insieme a loro, abbiamo vissuto il Napoli di Maradona come la rivalsa del Sud contro il Nord.
Di calcio non ne capivo niente neanche allora, ma quando la domenica andavo alle case delle poste, vedere i genitori dei miei amici esultare mentre guardavano le partite in TV era qualcosa di grandioso: a ogni goal si spalancavano le finestre, si urlava a squarcia gola, e si facevano gesti dell’ombrello a random, così, a chi prendo prendo; e poi abbracci, brindisi, telefonate alle famiglie a Napoli per festeggiare insieme, petardi e fumogeni in strada…
Il lunedì, a scuola, roteavamo sciarpe e magliette azzurre, sventolavamo cartoline autografate da Maradona, e intonavamo inni di incitamento al Pibe de Oro, che però, purtroppo, non ricordo più.
Dall’altra curva arrivavano i soliti senti che puzza, scappano anche i cani… (“motivetto” sentito anche da alcuni uomini politici, anche se, per interessi elettorali, pare ora abbiano fatto un repulisti dagli insulti contro i meridionali nelle loro dichiarazioni pubbliche. Come se fosse possibile dimenticare e se gli insulti verso i non meridionali possano essere accettabili).
Grazie a Maradona, ai cori offensivi sapevamo come rispondere: con un bel gesto dell’ombrello, così, a random, e tornavamo ad abbracciarci e a cantare per la nostra rivincita.
Io, nell’appello sul registro, ero il numero 10, come la sua maglia: ero lusingata dell’invidia che suscitavo per questo in tutto il resto della classe.
Le sue figurine avevano un valore inestimabile, e anche chi non aveva l’album dei calciatori, come me, faceva di tutto per averne una e attaccarla sul diario o sulle copertine plastificate dei quaderni.
Perché Diego era un eroe e ci vendicava tutti: tifavamo per il Napoli io di Messina, due compagni di Catania, uno di Reggio Calabria, uno di Bari; persino uno di Roma, che già era diventata ladrona.
Che soddisfazione quando Maradona segnava e batteva l’Atalanta, la Juve, il Milan, l’Inter ecc.: tiè! Glielo faceva vedere lui chi eravamo, noi meridionali! E va be’, era argentino, ma sempre dal Sud veniva…
Qualche anno fa, confrontandomi sulle nostre esperienze di infanzia di immigrazione con una mia amica di origine napoletana cresciuta nella periferia di Milano, abbiamo riso a crepapelle per il racconto di quando, bambina, il padre e lo zio l’avevano portata a festeggiare una vittoria del Napoli, ottenuta proprio grazie a un goal di Maradona: città deserta, avvolta dalla fredda notte padana, il padre che guidava e suonava il clacson all’impazzata, lo zio che azionava una tromba da stadio dal il finestrino abbassato gridando Napoli, Napoli, con lei, sul sedile posteriore dell’auto, che cercava di nascondersi per non farsi riconoscere…
E sì, storie di confine di cui Maradona era diventato il simbolo: il Sud, tutto, alzava la testa, emergendo, almeno per 90 minuti a settimana, da quella condizione di subalternità ritenuta ontologica da ben prima dell’Unità d’Italia.
Poi, siamo usciti dagli anni ’80 e dall’infanzia, e Maradona è entrato nella spirale della tossicodipendenza, dell’alcol, degli affari loschi, diventando la figura controversa che tutti abbiamo conosciuto…
Ma l’ho incontrato ancora. Mentre ero all’università e mi trovavo in vacanza a Napoli, passeggiando nei Quartieri Spagnoli mi sono imbattuta in una teca votiva, con tanto di lumini e fiori. Dentro, incorniciato, si trovava un pelo nero: capello miracoloso di Maradona, diceva la scritta.
La cosa mi ha suscitato un sorriso: quanti significati simbolici quell’effige ha evocato in me, ai tempi studentessa di antropologia. E quanta nostalgia per le vittorie del Grande Napoli e per i miracoli che ci avevano regalato.
Maradona è entrato nella mia vita anche di recente e, nuovamente, mi ha strappato un sorriso.
In uno dei primi incarichi come docente, mi sono trovata ad insegnare italiano in una scuola superiore di Monza.
Monza, apparentemente, sembra una graziosa cittadina borghese ma, entrandone all’interno delle dinamiche sociali, la realtà che ho percepito è stata quella di un’appendice di periferia milanese, con tante problematiche irrisolte.
Potrei scrivere interi libri solo parlando di quell’esperienza, però, oggi, per tornare a Maradona, voglio ricordare uno dei più brillanti e pestiferi tra i miei alunni (lui si riconoscerà senz’altro).
Non sono più la sua prof., ormai è cresciuto, è uscito dalla scuola, e ogni tanto ci sentiamo ancora.
Ci siamo scambiati qualche messaggio poco fa, proprio per parlare della notizia della morte di Maradona: sì, Prof., ho saputo, una tragedia!
Ecco, il mio allievo era di origini napoletane, e mi ha fatto disperare, ma mi ha anche insegnato tanto.
Perché questo mio studente faceva dei lavori splendidi: bellissime ricerche, accurate e precise; progetti sviluppati con attenzione e dovizia di particolari; brani scritti con arguzia e intelligenza… ma… eseguiva le consegne solo ed esclusivamente se si parlava del Napoli dei tempi d’oro.
Giuro! Non c’era modo di farlo lavorare, altrimenti.
Com’è bello, adesso, ricordare tanta originalità, e come sono fiera di me, per averglielo lasciato fare: vuoi scrivere del Napoli? E scrivi, però devi stupirmi!
D’altronde, come si può imporre un limite alla creatività?
Così per un anno ho corretto biografie su Maradona, storie dei gol di Maradona, approfondimenti sul rapporto tra Maradona e la città di Napoli ecc. Testi veramente, veramente notevoli.
Chissà, forse anche per il mio alunno Maradona ha rappresentato un’icona di valore identitario, un legame positivo con la sua storia familiare e personale…
Conoscevamo entrambi le vicende dubbie e problematiche che l’avevano visto protagonista, ma il mio studente, così come me da piccola, aveva bisogno di prendere solo il buono, di Maradona, e lasciare perdere il resto.
E il buono era l’immagine del riscatto della Questione Meridionale, la riscossa di questo Sud, finalmente non più perdente.
Ho pensato a tutto questo, con commozione, stamattina, alla notizia della sua morte.
Perciò ho voluto ricordarlo. Vedete? Anche le donne possono parlare di calcio… Quindi ciao, Diego, buon viaggio, e grazie per questi preziosi ricordi…