La prima, ma non l’ultima. Una storia di lotte, lavoro, progresso. E vittoria.
Di Sara Siddi
Le elezioni presidenziali americane del 2020 si sono concluse con la vittoria del ticket Biden-Harris ma si è ancora ben lontani dal voltare effettivamente pagina, portandosi dietro il peso dei quattro anni di amministrazione Trump-Pence. Il 45° presidente USA non ha infatti ancora concesso la vittoria al presidente eletto Biden – né sembra essere intenzionato a farlo – e quello che dovrebbe essere il tradizionale periodo di peaceful transfer of powers tra l’amministrazione uscente e quella entrante si sta rivelando tutt’altro che pacifico.
All’esplosione di gioia di molti americani, che sabato 7 novembre hanno affollato strade, piazze e social network dopo che le proiezioni dei principali media avevano assegnato la Pennsylvania – e quindi la presidenza – a Joe Biden, si è contrapposta la delusione di tanti altri che avevano espresso il loro voto sperando in un risultato diverso. La delusione, talvolta, è stata anche accompagnata da rabbia, infuocata dalle infondate denunce di ipotetici brogli elettorali che avrebbero falsato le elezioni. Questa profonda spaccatura – sociale, geografica ed emotiva – è stata ben riassunta da The Economist che, ad elezioni concluse, ha titolato: “America changes course, while remaining very much the same”.
Quella che ci arriva dagli Stati Uniti è una storia di divisioni e distanze e non basterà il risultato di una elezione, per quanto confortante, per lenirla e colmarla.
Eppure, il grande esercizio di democrazia andato in scena due settimane fa – i cui meccanismi (vedi i collegi elettorali) lasciano interdetti molti Europei – restituisce alcuni trend positivi, sui quali investire. Primo fra tutti, l’altissima affluenza che ha portato Joe Biden a ricevere più voti di quanti non ne abbia mai ricevuto qualsiasi altro presidente eletto e, allo stesso tempo, Donald Trump a posizionarsi subito dopo.
Ma ancora più incoraggiante è stata la partecipazione di comunità e fasce di popolazione che fino ad oggi avevano faticato – vuoi per mancanza di opportunità, per ostruzionismo o per semplice disincanto – ad incidere in maniera sostanziale sui risultati elettorali americani.
Semplificando e appiattendo quello che è in realtà un discorso più complesso e articolato, possiamo sostenere che siano stati in gran parte gli elettori più giovani e quelli appartenenti alle minoranze – tra cui la comunità afroamericana – a consentire ai democratici di tornare alla Casa Bianca dopo soli quattro anni.
E tra questi elettori, un ruolo fondamentale lo hanno giocato le donne di colore. Lo hanno sottolineato molti media americani e non – solo per citarne alcuni, il Washington Post[1], il Time[2], il Guardian[3].
Lo sanno bene soprattutto loro, le donne afroamericane, la cui voce si è finalmente levata così in alto da arrivare anche a chi si era per anni rifiutato di ascoltarla, e il cui voto ha consentito al Paese di avere non solo un nuovo presidente, ma anche una nuova vice-presidente.
La prima vice-presidente eletta donna, la prima vice-presidente eletta di colore, la prima vice-presidente eletta di origine asiatica.
Kamala Harris è stata la prima in molte cose: figlia di due immigrati – madre indiana e padre giamaicano – dopo essersi laureata alla Howard University e aver conseguito una specializzazione in legge presso la University of California, negli anni ’90 inizia a muovere i primi passi in ambito politico, ricoprendo vari incarichi pubblici. È nel 2003 però che arriva la svolta, con l’elezione a procuratrice distrettuale di San Francisco.
La prima persona di colore a ricoprire tale posizione.
Da figura relativamente poco conosciuta a nome noto in ambito dem e non solo, Kamala Harris punta su preparazione, competenza e una buona dose di grinta, tutte doti che le consentiranno, nel 2011, di venire eletta procuratrice generale della California.
La prima donna afroamericana e la prima asioamericana.
E sarà sempre la California che nel 2016 la sceglierà per affiancare un’altra donna, Dianne Feinsteing, al Senato degli Stati Uniti.
La prima donna di origine asiatica. La prima, di nuovo.
Durante la sua carriera politica, la vice-presidente eletta Harris ha trattato temi spinosi e sfidato molte delle tensioni sociali proprie degli Stati Uniti: reati violenti (si è opposta all’uso delle armi d’assalto da parte di civili) e non (spicca la sua attenzione ai temi ambientali), iniziative – anche dibattute – per contrastare la dispersione scolastica, riforma del sistema giudiziario penale, uso eccessivo della forza da parte della polizia (tema per il quale ha ricevuto anche numerose critiche durante la sua stessa corsa alla presidenza nel 2019), diritto alla privacy informatica. Sono solo alcune delle battaglie per le quali si è spesa in prima persona sia da progressive prosecutor, definizione datasi da lei stessa ma contestata da molti, sia da senatrice.
In grado di far presa sia fra i democratici moderati sia fra quelli più progressisti – che non le risparmiano tuttavia critiche per le posizioni a loro dire troppo poco incisive, come ad esempio sulla riforma sanitaria – Kamala Harris rappresenta per molti il punto di incontro e sintesi del partito democratico ed è un grande valore aggiunto per il presidente eletto Biden, che per i prossimi quattro anni potrà contare su un’esperta alleata.
Un’alleata che si circonda a sua volta di persone che ne rispecchiano il valore e che di frequente racchiudono nella loro storia personale quel sogno americano ormai un po’ sbiadito ma sempre valido.
Tra queste vi è certamente la sua chief of staff, Karine Jean-Pierre.
Attivista, scrittrice e docente alla School of International and Public Affairs della Columbia University, Jean-Pierre è figlia di immigrati haitiani ed è la prima donna afro-americana e apertamente omossessuale a ricoprire un ruolo così senior nello staff di un vice-presidente.
Nel suo passato ci sono la partecipazione alle campagne presidenziali di Barack Obama del 2008 e 2012 e la nomina a regional political director dell’Office of Public Affairs della Casa Bianca durante il primo mandato di Obama, esperienze che l’hanno certamente resa un punto di riferimento durante l’ultima campagna elettore e che, insieme alla sua capacità di mobilizzare e rappresentare un’America variegata e inclusiva, la proiettano a tutti gli effetti tra le figure maggiormente di rilievo della nuova amministrazione.
Nel suo libro “Moving Forward: A Story of Hope, Hard Work, and the Promise of America”, pubblicato lo scorso anno, Jean-Pierre scava a fondo di quelle che sono state le motivazioni che l’hanno spinta ad entrare in politica, sottolineando come la partecipazione sia l’elemento fondante di una democrazia sana e viva e di quanto la politica sia cosa comune, anche di chi troppo spesso la sente come distante e ostile. Lei stessa, espressione delle minoranze – donna, immigrata, afroamericana, omossessuale – con la sua storia ne è la prova.
La storia di Kamala Harris, così come quella di Karine Jean-Pierre ma anche di Stacey Abrams, Ilhan Omar, Alexandra Ocasio-Cortez e di molte altre, è la storia di un percorso condiviso verso l’uguaglianza e la rappresentanza. Un percorso costruito da donne che puntano ad essere le prime per far sì che non restino le uniche.
[1] T. Crumpton, “Black women saved the Democrats. Don’t make us do it again”, The Washington Post, Nov. 7, 2020 – https://www.washingtonpost.com/outlook/2020/11/07/black-women-joe-biden-vote/.
[2] B. Cooper, “Kamala Harris and Black Women Voters Helped Joe Biden Get Elected. Here’s How America Can Do Right by Them”, Time, Nov. 7, 2020 – https://time.com/5909002/kamala-harris-black-women/.
[3] J. Washington and T. Arnold of the Fuller project, “Whatever it takes: how Black women fought to mobilize America’s voters”, The Guardian, Nov. 12, 2020 – https://www.theguardian.com/us-news/2020/nov/12/black-women-voters-mobilize-georgia-elections.