Hanna Arendt e “La banalità del male”
Di Alba Coppola
Hannah Arendt nacque ad Hannover il 14 ottobre 1906, da famiglia ebraica tedesca di tradizioni laiche, perfettamente integrata nel milieu locale. Per Arendt, come per moltissimi ebrei d’Europa, la scoperta, o meglio la riscoperta della propria identità ebraica avvenne per contrasto negli anni della persecuzione, prima in patria e poi nei territori conquistati dalla Germania durante la II guerra mondiale. Poco dopo l’ascesa del nazismo, Arendt fuggì in Francia e da lì nel 1941 grazie alla Resistenza, dopo un breve passaggio in Portogallo, negli USA dove visse e insegnò, con incarichi temporanei, nelle più prestigiose università, fino all’anno della morte avvenuta nel 1975.
Colei che non volle essere definita ‘filosofa’, bensì ‘pensatrice politica’, allieva di Heidegger e di Jaspers, è la prima teorica delle origini del totalitarismo, interessandosi sia a quello nazista sia a quello sovietico del periodo stalinista, che tuttavia non pose su piani identici.
Desidero soffermarmi sulla sua opera più conosciuta, anche se non definitiva né più importante, di grande stimolo intellettuale e probabilmente una tra le meno comprese: La banalità del male: Eichmann a Gerusalemme (Eichmann in Jerusalem: A Report on the Banality of Evil).
Uscita nel 1963, è sostanzialmente il diario dell’autrice, inviata del settimanale New Yorker, sulle sedute del processo ad Adolf Eichmann, l’esperto delle tecniche del trasferimento degli ebrei d’Europa nei campi di sterminio. Nel 1961, il Mossad, con un’operazione audace e azzardata, rapì Eichmann, che viveva da anni a Buenos Aires sotto falso nome e lo portò a Gerusalemme, dove fu sottoposto a un processo che si concluse con la condanna a morte per impiccagione. Il corpo dello ‘specialista’ fu cremato e le sue ceneri disperse.
Arendt, nel seguire l’intero iter, sviluppò una tesi che destò scalpore, scandalo e proteste mai sedate non soltanto fra storici, filosofi e analisti politici, ma anche fra i lettori non specialisti.
In sostanza, il consapevole organizzatore di un progetto fino ad allora unico nella storia, il genocidio scientifico dell’ intera popolazione ebraica (vista come infezione mortale per il corpo sano del mondo ariano e del Reich nato per durare mille anni) non era un individuo consegnatosi al male assoluto contro il bene, bensì un grigio burocrate, che aveva ‘semplicemente’ cessato di pensare.
Questa interpretazione fu considerata, e da alcuni lo è ancora, una semplificazione, una riduzione della responsabilità dell’individuo e di quelli come lui, un goffo tentativo di rassicurarsi: dire che Eichmann non era malvagio equivaleva a dire che quel male incomprensibile e sconvolgente, ch’egli tuttavia compì, potesse essere chiuso nella categoria normalizzatrice della banalità.
Ci si chiese se Arendt non fosse per caso caduta nel tentativo astuto di Eichmann di presentarsi come burocrate ubbidiente e incapace di elaborazione autonoma.
Nell’attribuire veridicità alla prima osservazione si commette un errore di interpretazione che impedisce di vedere l’ estrema problematicità del pensiero di Arendt, la terrificante inquietudine ch’ella ci apre davanti. L’ imputato era un uomo che aveva rinunciato a parlare con la propria coscienza, cioè a compiere l’azione ontologicamente più umana e pertanto, nell’umanità, ineludibile. Ingoiati dalla massificazione del pensiero, non solo Eichmann, ma ogni nazista e tutti i loro volenterosi aiutanti, avevano cessato di porsi davanti al tribunale della propria coscienza e delegato all’obbedire ciecamente il compito di sollevarli dal peso del libero arbitrio, della libera scelta. Avevano, insomma, interrotto il dialogo interiore, la valutazione continua e sistematica del proprio agire, la responsabilità. Con la seconda osservazione si attribuisce alla grande pensatrice superficialità o almeno ingenuità, entrambe poco credibili se a lei riferite.
“E’ anzi mia opinione che il male non possa mai essere radicale, ma solo estremo: e che non possegga né una profondità, né una dimensione demoniaca. Può ricoprire il mondo intero e devastarlo, precisamente perché si diffonde come un fungo sulla sua superficie.
È una sfida al pensiero, come ho scritto, perché il pensiero vuole andare in fondo, tenta di andare alle radici delle cose, e nel momento che s’interessa al male viene frustrato, perché non c’è nulla. Questa è la banalità. Solo il bene ha profondità, e può essere radicale.”
In queste parole riecheggiano alcune riflessioni di S.Agostino, la cui influenza sul pensiero di Arendt, fin dalla tesi di dottorato, è stata da tempo messa in rilievo ed è oggetto di numerosi studi. Per esempio a proposito del concetto di inizio del tempo e dell’idea di libertà, ma a chi scrive sembra di poter cogliere un altro rimando: quello del male come assenza, come vuoto di bene, pure se in Arendt la dicotomia non è tra essere e non essere, ma tra radicalità e superficialità.
Un male può essere devastante, senza mai radicarsi, un fungo senza radice e senza pensiero (come in S.Agostino) è assenza e privazione. E frutto di una scelta libera dell’essere umano.