Sei un maschiaccio
Di Priya Brignoli
Da piccola detestavo il colore rosa e non giocavo con la Barbie.
Adoravo correre, rotolarmi nel fieno, giocare a calcio e, con mio fratello trascorrevo ore, avvolta dal puzzo del seminterrato, a costruire le mosche – esche per la pesca alla trota -. Perciò la nonna mi diceva sempre “sei un maschiaccio”.
Nonna Carla apparteneva ad una famiglia piuttosto facoltosa, amava il teatro, la musica classica, i musei; sebbene fosse colta e intelligente, era succube degli stereotipi di genere.
“Il maschio vale di più“, diceva. Io, relegata ad un ruolo minore, dovevo solo fare la brava bambina ubbidiente. Soffrii per il modo diverso in cui venivo trattata rispetto a mio fratello.
Una volta disse che non era necessario che mi laureassi “perché tanto tu sei una femmina“; avevo nove anni soltanto ma ricordo che sentii una stilettata in petto.
Sebbene allora non riuscissi a verbalizzare il mio stato d’animo, a distanza di anni capisco che provai ribrezzo per l’ingiustizia subita: qualcuno pretendeva di farmi sentire inferiore per una mera differenza di genere. Violata nella mia identità ero inebetita all’idea che proprio mia nonna, lei stessa donna, fosse convinta che l’uomo fosse più importante… sua madre l’aveva cresciuta con questa idea.
La mia fortuna è stata che l’altra nonna era molto diversa.
Nonna Teresa rimase precocemente orfana di padre. Si trovò presto a fare i conti con la durezza della vita, dovendo badare alle sorelle minori e a svolgere i lavori pesanti mentre la madre era al lavoro. Il destino volle che a pochi anni dal matrimonio, dopo la nascita di mio padre e di mio zio, rimase vedova. Nella sua vita ricoprì sempre un duplice ruolo: donna e uomo.
Sebbene non avesse avuto la fortuna di studiare a lungo, fatta eccezione dell’obbligo scolastico, coltivò la sua emancipazione senza essere mai succube della stereotipia di genere, che si rifletté anche nella modalità di interagire con i nipoti: trattava maschi e femmine in egual modo, poiché avevano pari dignità e valore.
Due donne, pressoché coetanee, e due mentalità agli antipodi.
Carpire alcuni dettagli è necessario per migliorare la concezione di femminilità.
Affinché la donna abbia pari opportunità e considerazione dell’uomo si deve attuare, in primis, un cambiamento del linguaggio, che condurrebbe nel tempo ad una rivoluzione culturale e, di conseguenza, al cambiamento del comportamento sociale.
Fondamentale, altresì, è fare in modo che i bambini non subiscano frasi stereotipate; a tale scopo, dovremmo attuare una rivoluzione a livello personale, mettendo in discussione le figure di riferimento che un tempo avevamo ed evitando di ripetere gli stessi errori dei nostri nonni o dei nostri genitori.
Per concretizzare il mio ragionamento riporto due esempi: “non piangere come una femminuccia” – padre a figlio (4 anni).
Da questa frase il bimbo potrebbe trarre implicazioni errate, e nell’immediato sarebbe portato a smettere di piangere, soffocando la propria emozione, per non deludere il genitore. Da adulto probabilmente avrà l’idea che se un uomo piange è “un fallito”. Inoltre, se il bimbo, diventando padre a sua volta, non si rendesse conto della struttura errata della frase, potrebbe riproporre lo stesso schema educativo stereotipato.
Il secondo esempio: “non fare le boccacce, non è da brave principesse” – madre a figlia (5 anni). La bimba smette di giocare così da sentirsi meritevole dell’amore genitoriale.
Frasi di tale natura, che sottintendono una stereotipia di genere, reiterate nel tempo, creano un substrato nella memoria e nell’esperienza che diviene via via più solida a mano a mano che l’individuo cresce.
Dalla rivoluzione linguistica si attua una rivoluzione culturale e sociale, sradicando l’idea errata che esista un’adeguata gamma di comportamenti per il mondo femminile e un’altra consona al mondo maschile. È importante rendersi conto che la stereotipia uccide la personalità e la libertà di esprimerla: come gli uomini non hanno l’obbligo di sembrare sempre forti e aggressivi per dimostrare la loro mascolinità, così le donne non devono essere mansuete, dolci ed efficienti nelle faccende domestiche. A entrambi i generi devono essere universalmente riconosciute pari dignità e piena libertà di espressione.
Noto che l’uomo moderno si impegna sempre più nei lavori domestici; non mi piace dire che aiuta la donna – il verbo aiutare, a mio avviso, implica una sfumatura particolare: come se il contributo maschile fosse d’eccezionalità, sottintendendo che la sfera domestica spetterebbe alla donna.
Nonna Teresa sorrise quando le dissi che mio marito cucina, stira ed è capace di cucire; nonna Carla sarebbe impallidita!
In conclusione, evitando di inculcare modelli rigidi su cui costruire le identità di intere generazioni, le persone sarebbero più serene, poiché libere di esprimere la propria indole senza la pressione del giudizio e del pregiudizio; di conseguenza ne deriverebbe, sia in uomini che in donne, un tasso di autostima più elevato e il rispetto e la stima reciproca migliorerebbero.