Il paradosso del Coronavirus, tra crisi alimentare e spreco di cibo
Di Elena Esposto
La settimana scorsa, sugli scaffali del supermercato dove vado abitualmente a fare la spesa sono tornati il lievito fresco, le uova e la farina. Mancavano dalla seconda settimana di quarantena, razziati durante la corsa isterica agli approvvigionamenti.
Se in un primo momento molti di noi hanno pensato ad una reazione esagerata, quando non ridicola, in realtà la quarantena ha modificato in modo tangibile i consumi nel nostro paese.
Secondo un’indagine di Nielsen gli acquisti nella grande distribuzione organizzata (GDO) sono cresciuti costantemente dall’ultima settimana di febbraio in poi, raggiungendo picchi del +16 punti percentuali al Nord per una media di +12 punti percentuali a livello nazionale.
Tra gli alimenti che hanno visto un’impennata di acquisti troviamo proprio i grandi introvabili. La farina con un aumento delle vendite del 185% e le uova (59,6%), insieme al riso, le cui vendite sono aumentate del 71%.
Questa pressione di consumo ha messo in seria difficoltà la filiera produttiva. Un esempio lampante è quello del lievito di birra (prima fresco e poi secco) che ha fatto qualche apparizione lampo sugli scaffali negli ultimi giorni andando puntualmente a ruba nonostante il vincolo di poter comprare un solo panetto da 500gr a persona, neanche gli italiani fossero di colpo diventati un popolo di panettieri.
Un alimento come il lievito necessita di tempi lunghi di creazione e perciò i produttori non sono riusciti a stare al passo con la domanda.
Uscendo dallo scenario domestico uno dei fenomeni più allarmanti sul mercato alimentare delle ultime settimane è la cosiddetta “guerra del riso”.
Mentre sempre più paesi mettono in quarantena le loro popolazioni, rallentando le attività produttive e di commercio, i grandi paesi produttori di riso iniziano a pensare ai loro interessi interni. Il Vietnam ha contingentato le esportazioni, mentre Bangladesh e India le hanno bloccate. La Thailandia invece ha visto salire il prezzo al massimo storico dal 2013.
Secondo l’International Rice Research Institute nei prossimi mesi vedremo il prezzo del riso aumentare dal 19 al 52%.
Lo stesso vale per il grano: mentre la Russia ha limitato le esportazioni il Kazakistan le ha vietate.
La pandemia di Coronavirus ha riportato in modo prepotente sotto gli occhi di tutti l’importanza dell’agricoltura, contro settori fino ad oggi ritenuti fondamentali, come ad esempio quello degli idrocarburi.
La chiusura verso l’esterno dei paesi produttori di cibo (in particolare cereali) e la difficoltà attuale degli scambi internazionali hanno portato a galla timori di una crisi alimentare globale.
Secondo dati della FAO, alla fine del 2019 erano 135 milioni le persone che versavano in situazione di insicurezza alimentare e questo dato potrebbe drasticamente aumentare nei prossimi mesi, esacerbato anche da possibili carestie dovute al rallentamento dell’attività agricola in certi paesi e all’impossibilità per molti piccoli produttori di portare le proprie merci sul mercato.
Un altro fattore che giocherebbe come aggravante della crisi alimentare globale è l’aumento del prezzo del cibo. La semplicissima legge del mercato per cui all’aumentare della domanda (o al diminuire dell’offerta) i prezzi aumentano non fa eccezioni nelle situazioni di emergenza, anzi.
E l’aumento dei prezzi sui mercati internazionali si riflette naturalmente anche nel nostro piccolo mondo di consumatori domestici. Secondo Federconsumatori nel nostro Paese i prezzi sono aumentati raggiungendo addirittura picchi del 35%.
Il paradosso di questa situazione, che molti di noi non esiterebbero a definire assurda, è l’incredibile aumento di spreco di cibo. Non solo a livello dei produttori che sono costretti a gettare via tonnellate di derrate alimentari a causa della sopra citata difficoltà a portarlo sul mercato, ma il fenomeno coinvolge anche gli individui e le famiglie.
Secondo il National Geographic la maggior causa di spreco di cibo negli Stati Uniti è il consumo familiare e noi in Europa non siamo da meno. Solo in Italia, dall’inizio della quarantena, lo spreco alimentare è aumentato del 30%, e se consideriamo che in media ogni italiano ogni anno butta nella spazzatura 36 chilogrammi di cibo è un dato allarmante.
Sono decine le foto che circolano sul web di cassonetti dell’immondizia pieni di cibo ancora perfettamente imballato.
Questa è una delle prevedibili conseguenze dell’assalto isterico e scellerato ai supermercati, ovvero l’incapacità di consumare entro la data di scadenza la montagna di cibo che abbiamo acquistato, unita ad una discreta disinformazione sulla corretta interpretazione di tali date di scadenza, e anche delle possibilità alternative di conservazione degli alimenti (ad esempio il congelamento).
Quindi, mentre la FAO lancia appelli per un’imminente crisi alimentare globale, ma che lo sappiamo, se secoli di storia ci hanno insegnato qualcosa, colpirà soprattutto i Paesi più poveri, il mondo industrializzato (non credo che in questo caso “sviluppato” sia la parola più adatta) continua a navigare nella sua opulenza (ma comunque non sediamoci sugli allori, secondo il Sole 24ore, sono 1,2 milioni i nuovi poveri causati dalla pandemia solo in Italia) permettendosi di gettare tonnellate di cibo ancora confezionato.
Con tutte le conseguenze di impatto ambientale del caso, una per tutte la non differenziazione dei rifiuti. Ma questo è un capitolo che merita una trattazione a parte.