L’esercito dei brand
Di Esther Forlenza
La nostra società da circa un secolo non necessita più di un popolo da educare o da istruire ma principalmente di consumatori da sedurre. Partendo da questo assunto, è indubitabile che si sia assistito alla graduale trasformazione dell’idea di “cultura”, la quale è passata dalla sua forma originale, ispirata alla scuola di pensiero illuministica che ha caratterizzato l’epoca settecentesca, ad una vera e propria ri-nascita come “cultura liquida”, incentrata unicamente sul consumatore.
Se si osserva l’attuale condizione della realtà sociale, come alcuni studi pongono in rilievo, il paradigma del consumo ha superato il concetto di mera utilità economica per comprendere al suo interno forme di consumo legate all’edonismo e al prestigio. Parlare di consumatori edonistici vuol dire far riferimento a coloro i quali vivono effettivamente il consumo come strumento di piacere, attirati dall’universo di significati simbolici creati dai brand.
In che modo si scelgono i prodotti?
Sicuramente non è più possibile pensare di dettare la domanda di consumo come ha potuto fare ad esempio Henry Ford, “imponendo un unico modello di automobile”, difatti il ruolo principale è giocato dalla pubblicità che supporta il brand stesso. Sebbene non tutta la pubblicità favorisca la costruzione del brand, quella rivolta alla pura attività di promozione ha rapidamente proliferato. L’utilità dei processi di promozione risiede nel fatto che qualsiasi cosa può essere un brand, non solo un oggetto ma anche una persona; come alcuni studiosi affermano “possono tutti diventare un brand sempre che ci sia branding”, ossia che venga effettivamente promossa l’immagine del prodotto o incentivata la fedeltà del cliente al brand.
Qual è la strategia?
Tutto è possibile nel momento in cui il brand punta il riflettore sul consumatore ossia la preda da adescare. Le tattiche di adescamento del mondo commerciale sembrano, almeno apparentemente, analoghe a quelle enunciate da alcuni strateghi militari classici.
Sun Tzu nel suo capolavoro “L’arte della Guerra” dice:
“La guerra non ha una sua forma definita e l’esercito deve essere come l’acqua che si conforma al terreno”.
Ebbene, in un contesto di socializzazione dei processi produttivi, la capacità di attrarre un maggior numero di consensi intorno al brand rappresenta la “battaglia” quotidiana tra i differenti produttori, come verosimilmente accade in guerra quando più fazioni si contendono la supremazia su un territorio. Il campo di battaglia è quello mass mediatico, virtuale e liquido, diametralmente diverso dallo storico campo di Waterloo. In tale terreno di gioco non ci sarà la fanteria schierata ma la troupe degli spot pubblicitari a cui spetta l’onere di conquistare il consumatore ponendo in essere la strategia “dell’acqua che si conforma al terreno”. La pubblicità, difatti, mira ad abbattere le barriere del raziocinio dei consumatori, e, optando per strategie di “Soft Power”, sfrutta tutte le armi di cui dispone: immagini, parole e suoni, armamenti in grado di sedurre il consumatore bombardando la sua sfera emozionale.
Il consumatore è però diventato sempre più scaltro e insaziabile, alla continua ricerca del nuovo e la pubblicità è stata così costretta ad essere sempre più avvincente. Per tale ragione, i prodotti sponsorizzati si trasformano ogni giorno in testi emotivi dove gli oggetti, sempre più curati nel design, vengono espropriati della loro semplice utilità. Tuttavia, è verso la fine degli anni Settanta che ci si avvicinava per la prima volta al tema del design industriale in un’ottica di discorso ideologico. Adrian Forty nel suo studio “Objects of Desire” ha sostenuto che: “Il design dei prodotti colpisce la nostra maniera di percepire gli oggetti che “indossano” un design piuttosto di un altro. Il design degli oggetti ha da sempre svolto la capacità di far sembrare un oggetto di design qualcosa di diverso da quello che è, conferendogli un’utilità diversa della sua utilità oggettiva”.
E’ dunque innegabile che i brand, oggi più di ieri, siano dotati di una proprietà ingannevole grazie alla “campagna emozionale” posta in atto, strategia che però è indubbiamente riuscita a fornire un valore aggiunto alla semplice materialità dei prodotti.