“A Tehran le lumache fanno rumore”: recensione
Di Elena Esposto
“Ogni cosa lasciata a metà allontana l’altra metà dal completamento”.
Il romanzo di esordio di Zahra ‘Abdi, scrittrice iraniana, A Teheran le lumache fanno rumore (edito in Italia da Francesco Brioschi), è una storia di storie lasciate a metà: la storia di come tutto ciò che rimane irrisolto o in sospeso segna in profondità le nostre vite.
In una Teheran moderna e caotica le vite di tre donne si incrociano attorno all’impalpabile, ma ingombrante, figura maschile di Khosrou, fratello, figlio, amante partito per la guerra tra Iran e Iraq e dalla quale non ha mai fatto ritorno.
Per superare il grande vuoto lasciato dal conflitto e per smorzare il dolore, acuito da tutti i “non detto” e tutte le questioni lasciate aperte da quella scomparsa, ciascuna delle tre donne si rifugia nel proprio personalissimo mondo immaginario.
Shirin si rinchiude in un universo interiore popolato dai personaggi del grande cinema e dal Fanciullino, una sorta di amico immaginario che impersona la sua coscienza e i dictat materni, il quale tenta senza troppo successo di metterla di fronte alla realtà del dolore che sta attraversando. Non solo il suo, ma per riflesso, anche quello della madre.
Quest’ultima, a sua volta ha costruito un santuario inaccessibile nella camera del figlio scomparso, dove passa le ore, nutrendosi dei ricordi e, forse in parte, anche del rimorso.
Afsun invece si rifugia nei sogni che ogni notte la riportano alla casa della sua infanzia e al noce, cresciuto oltre il muro che divideva il suo giardino da quello della famiglia di Khosrou. L’intenso profumo dei frutti verdi la riportano inesorabilmente agli anni nei quali lei e Khosrou si scambiavano lettere appassionate tra le crepe del muro, anni di amore con i piedi ammollo nel torrente, alla ricerca di un paio di ciabatte di plastica arancione.
Questi mondi immaginari, lungi dal liberarle dal dolore, fanno sprofondare ancora di più le loro creatrici nel passato, rendendole incapaci di reagire e di cambiare il presente.
Shirin non trova il coraggio di affrontare la madre che, chiusa nel suo dolore e nel suo bigottismo, alza una barriera davanti alle timide richieste della figlia. Richieste che vanno dal desiderio di saperne di più sul fratello scomparso, all’esigenza di libertà di una ragazza che vuole essere una normale trentenne, vuole guardare i film senza censura, passare i pomeriggi con l’amica di sempre, innamorarsi del ragazzo che vende dvd abusivi all’angolo della strada e postare su Facebook le proprie foto senza il velo.
Afsun non trova il coraggio di affrontare apertamente le sue infelicità, siano esse nel matrimonio o nella vita professionale. Psicologa di successo conduce un programma televisivo sulla vita familiare che inizia irrimediabilmente a starle stretto. Incastrata tra due uomini ingombranti, da un lato il suo mentore universitario, dall’altro il marito, non riesce ad affrontare Shirin, quando questa si presenta alla porta del suo studio, ma neppure è in grado di lasciare andare la memoria di Khosrou una volta per tutte.
Anche la madre non trova il coraggio di lasciar andare la memoria del figlio, aggrappandosi con le unghie e con i denti ai pochi ricordi materiali che le sono rimasti, lottando fino alla fine per impedire all’altro figlio, il maggiore, di demolire la vecchia casa e sradicare l’albero di noci che tanto aveva significato per tutte loro.
Il libro di Zahra ‘Abdi è una lunga e intima riflessione sull’elaborazione del lutto e della sofferenza. Nonostante si sentano forti gli echi della letteratura persiana dalle pagine emerge poco la realtà dell’Iran contemporaneo, molte cose vengono lasciate alla conoscenza o alla curiosità del lettore. Centro focale della storia è l’interiorità delle sue protagoniste: non è un manifesto ma un inno all’animo femminile che parla anche a donne culturalmente e geograficamente distanti. Attraverso una scrittura intima che passa spesso dalla prima alla seconda persona, come se Shirin e Afsun (le due voci narranti) si rivolgessero principalmente a se stesse, A Tehran le lumache fanno rumore è un omaggio a tutte le donne che hanno sperimentato il dolore della guerra e della morte, dolore di cui le donne pagano spesso il prezzo doppio perché sono le uniche che restano e alle quali è affidato il compito di ricordare e rigenerare la vita.